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L’immigrazione delle polemiche, tra solidarietà e business

MamoneIl tema dell’immigrazione è certamente uno dei più complessi e spinosi tra quelli attualmente dibattuti nell’agone politico. Innanzitutto perché spacca nettamente l’opinione pubblica: da una parte alimenta azioni di solidarietà concreta e di accoglienza, incoraggiate principalmente dal mondo cattolico e dalla sinistra più universalista; dall’altra semina inquietudine e atteggiamenti di chiusura in ampi bacini di popolazione, che vivono il fenomeno come una minaccia ai propri status e alla sicurezza sociale in genere, fino ad avvertire in pericolo i fondamenti stessi della democrazia. Marc Augé, l’intellettuale francese noto soprattutto per il fortunato neologismo dei “non luoghi”, è convinto che i migranti facciano paura perché dimostrano come il senso di appartenenza ad un luogo o di possesso possa essere illusorio.

Le formazioni politiche, consapevoli delle forti suggestioni che la tematica è in grado di suscitare tra i cittadini, quindi nell’elettorato, cavalcano “la tigre” da posizioni contrapposte per acquisire i relativi consensi. Considerata la presenza costante – da anni – del tema soprattutto nei dibattiti televisivi, le argomentazioni di fondo in entrambi gli schieramenti in genere sono solidificate, casomai adeguate ai più recenti fatti di cronaca (da una rivolta di italiani o di stranieri alle sempre più frequenti tragedie in mare, dall’atto razzista fino all’inchiesta della magistratura sui business collegati al fenomeno). Esistono, ormai, persino trasmissione televisive che quotidianamente s’alimentano dello stesso tema, con esiti informativi oggettivamente discutibili, tra slogan e continue risse verbali.

Non è quindi difficile, utilizzando una buona dose di semplificazione, catalogare le posizioni e le relative argomentazioni.

Da una parte è possibile distinguere coloro che antepongono tour court  l’aspetto umanitario, ritenendo moralmente doverosa l’accoglienza di tutti, con la consapevolezza che in quel “tutti” sono compresi esseri umani disperati e sventurati, in cerca soltanto di un futuro migliore. In quel “tutti” ci sono milioni di persone che abbandonano i Paesi più poveri, puntando su quei continenti che Eugenio Scalfari efficacemente definisce “di antica opulenza”. In una sorta di grande corto circuito: si fugge dalle povertà e dalle guerre, fenomeni generati proprio dai Paesi “di antica opulenza” che nel nome di mercati senza più etica, produzione di armi e massimizzazione dei profitti individuali seminano squilibri e disuguaglianze.

I fautori dell’accoglienza tout court ricordano che i migranti non costituiscono una novità, ma hanno caratterizzato ogni epoca della storia mondiale. E che gli stessi settanta milioni di individui d’origine italiana sparsi per il Pianeta sono lì a testimoniarcelo. Le condizioni di partenza, gli strumenti a disposizione, l’alone di pregiudizi, le difficoltà d’integrazione dimostrano che in fondo i contesti non sono molto variati; semmai è cambiata l’intensità dei flussi perché i tanti esseri umani che oggi alimentano le epocali correnti migratorie, per necessità più o meno grandi, rappresentano la componente materiale più nobile di un fenomeno difficilmente gestibile, cioè la globalizzazione. Uno tsunami inarrestabile – come sappiamo – che ha abbattuto i confini nella circolazione di informazioni, capitali, prodotti finanziari, merci. Per paradosso, una delle ricette di contrasto al fenomeno, il protezionismo, tornato in auge in queste ultime stagioni, non si discosta dalla matrice liberalista, con la differenza che si mira a recuperare la sovranità degli Stati. Vengono in mente le sarcastiche parole di un altro intellettuale francese, Régis Debray: “Eliminiamo le frontiere, costruiamo muri”.

Sul fronte opposto individuiamo chi richiama la necessità di regolare il fenomeno, pur con sfumature diverse. Alle posizioni più soft, che mirano a contingentare i flussi e a distribuirli razionalmente sull’intero territorio nazionale (e, possibilmente, europeo), si affiancano quelle più radicali che alimentano contrapposizioni tra cittadini italiani ed extracomunitari sul terreno dei diritti (casa, lavoro, salute, scuola, ecc.) e collegano alla crescente presenza di cittadini stranieri le diffuse situazioni di degrado, di illegalità, di microcriminalità, fino alle insicurezze conseguenti al terrorismo e al fondamentalismo islamico.

Questa contrapposizione, negli ultimi giorni, s’è riproposta su un argomento davvero deplorevole che già s’era affacciato nell’inchiesta di Mafia Capitale poco più di due anni fa: il business  legato all’immigrazione. Il vessillo è l’ormai nota frase-simbolo pronunciata da Salvatore Buzzi in un colloquio telefonico e rilanciata dalle intercettazioni: “Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C’hai idea? Il traffico di droga rende meno”.

Oggi a lanciare sospetti sulle Ong, le organizzazioni non governative, e sui salvataggi in mare sono state dichiarazioni certamente più autorevoli. Lo scorso 12 aprile, il direttore dell’agenzia europea Frontex, Fabrice Leggeri, ha detto davanti alla commissione Difesa del Senato di avere le prove di contatti diretti tra scafisti e Ong, prove che avrebbe fornito solo all’autorità giudiziaria competente. Undici giorni dopo, domenica 23 aprile, il quotidiano La Stampa ha pubblicato un’intervista al procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che aveva già esternato i suoi pesanti sospetti in audizione dal Comitato parlamentare Schengen il 22 marzo. Zuccaro nell’intervista è rigoroso: “Abbiamo evidenze che tra alcune Ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti, non sappiamo ancora se e come utilizzare processualmente queste informazioni, ma siamo abbastanza certi di ciò che diciamo; telefonate che partono dalla Libia verso alcune Ong, fari che illuminano la rotta verso le navi di queste organizzazioni, navi che all’improvviso staccano i trasponder sono fatti accertati”. E precisa: “Su Ong come ‘Medici senza frontiere’ e ‘Save the children’ davvero c’è poco da dire. Discorso diverso per altre”.

Zuccaro ha rilanciato le sue accuse lo scorso 27 aprile nel corso della trasmissione “Agorà” su Raitre: “A mio avviso – ha detto il procuratore di Catania – alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante, si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi”.

Buon senso vorrebbe che di fronte a certe gravi dichiarazioni si contribuisse ad accertare la verità. Sono giusti i sospetti del procuratore di Catania, che comunque ha lanciato un allarme? Se così fosse, sarebbe utile individuare subito i responsabili, soprattutto per non addossare ombre su chi da anni opera con coscienza per salvare vite umane in costante pericolo. Se vi sono responsabilità di singole Ong, è bene che queste vengano accertate e perseguite proprio per fare chiarezza. Tanto più che l’impegno economico dell’Italia su questo fronte potrebbe raggiungere i 4,6 miliardi di euro nel 2017 (uno in più dell’anno precedente), come riporta non una ricerca privata, ma il Def, il Documento di economia e finanza che sancisce la politica governativa. Insomma, con una posta in gioco – anche economica – così alta, a cui concorrono tutti  i contribuenti italiani, è giusto pretendere l’adozione di serietà e rigore. Invece alcuni esponenti politici (e numerosi personaggi di contorno), di ogni schieramento, non hanno perso occasione per rinnovare – con generalizzazioni e conclusioni affrettate – le proprie granitiche posizioni fatte di certezze (Ong innocenti o colpevoli) e slogan affidati al social di turno, Twitter o Facebook che sia.

Di fronte a questo spettacolo poco edificante, ci piace ricordare ciò che ha detto Norman Rice, l’afroamericano che è stato sindaco di Seattle per quasi tutti gli anni Novanta: “Abbiate il coraggio di posare la vostra mano nel buio, per portare un’altra mano nella luce”.

(Domenico Mamone)

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