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Costermano sul Garda: balcone verde sulle acque del lago

CENNI GEOGRAFICI E GEOLOGICI DI COSTERMANO SUL GARDA

 

 

Collocato nella parte nord-occidentale della provincia di Verona, nell’entroterra benacense tra Torri e Garda, il comune di Costermano si estende per una superficie di 16,91 kmq, con una popolazione di 2522 abitanti (nel 1995). Il suo territorio, disposto tra N-O e S-E, comprende le colline dell’anfiteatro morenico del Garda e si estende nella parte più occidentale della piana di Caprino, raggiungendo i rilievi di Monte Belpo e delle Sengie di Marciaga. I confini vanno dal comune di Torri del Benaco ad Ovest, ai comuni di Garda e Bardolino a Sud, ai comuni di Affi, Rivoli e Caprino ad Est, al comune di San Zeno di Montagna a Nord. Il punto più alto del territorio comunale è rappresentato dalla quota di circa 665 metri s.m., posta a Sud di Sperane sul versante occidentale di Monte Belpo mentre il punto più basso si raggiunge nella piana di Garda a 113 m s.m., a Sud di Poiano. Una serie di rilievi sono rappresentati dal Monte Rovertondo (279 m s.m.), dal Monte Campian (324 m s.m.), dal Monte Murlongo (267 m s.m.), dal Montegolo (260 m), dal Monte Bran (312 m s.m.), e dal Monte Orione (309 m s.m.), tutti nella parte più esterna dell’anfiteatro morenico del Garda. Altri rilievi sono dati dal Monte Madonna (300 m s.m.), dal Monte Lenzino (479 m s.m.) e dal Monte Bandiera (460 m s.m.) con le caratteristiche pareti delle Sengie, dal Monte Canforal (426 m s.m.), dal Monte Arzilla (317 m s.m.) e dal Monte Torre (442 m s.m.). L’idrografia presenta due torrenti principali: il Tesina che attraversa la parte settentrionale del comune e fa parte del bacino idrografico del lago di Garda, ed il progno Tasso che tocca la punta a Sud-Est del territorio e fa parte del bacino idrografico dell’Adige. Il torrente Tesina nasce nella zona delle Sperane e scende nella val Sasse fino a Pizzon dove riceve il torrente della Val Beione, mentre prima di Castion riceve quello della val del Cotto; prosegue a sud di San Verolo e forma la valle dei Molini che riceve acqua anche dal torrente della val Strova e della val Rossar; sfocia infine a Garda, dopo aver percorso circa 8,8 km con il nome di Gusa. Vi sono poi alcune sorgenti, molto importanti per l’utilizzo che l’uomo ne ha fatto nel corso dei secoli : da quella di Virle, a quella ad Ovest di Campagnola; da quella a Sud-Ovest di Canevoi a quella posta a Nord-Ovest di San Verolo, ed a quella situata allo sbocco della val dei Mulini. Dal punto di vista geologico, il territorio di Costermano è costituito prevalentemente da rocce sedimentarie, da materiali morenici depositati nel corso delle glaciazioni e da formazioni alluvionali deposte alla fine delle glaciazioni. La parte più settentrionale del territorio si appoggia all’anticlinale baldense ed è costituita da rocce dell’Era Secondaria e dei primi periodi dell’Era Terziaria. Le formazioni presenti sono rappresentate da rocce sedimentarie di natura calcarea, originatesi nel periodo Giurese (da 190 a 135 milioni di anni fa) detti Calcari grigi, Calcari Oolitici di San Vigilio e Rosso Ammonitico Veronese; nel Cretaceo (da 135 a 65 milioni di anni fa), detti Biancone e Scaglia Rossa Veneta; nell’Eocene (da 53 a 34 milioni di anni fa), come alcuni calcari Nummulitici presenti soprattutto sul Monte Belpo. I Calcari grigi presentano fossili di Lithiotis Problematica, mentre nei Calcari Oolitici numerosi sono i fossili di crinoidi tra cui i Pentacrini, e nel Rosso Ammonitico frequenti sono le ammoniti. Nel Biancone sono contenuti diversi livelli di selce con caratteristici arnioni. La zona emerse dal mare probabilmente tra 15 e 10 milioni di anni fa sotto le spinte orogenetiche (collisione della zolla africana contro la zolla indo-europea) e raggiunse in seguito, sulle Sengie di Marciaga una quota di circa 500-700 m d’altezza, quota che venne in gran parte smantellata e ridotta dalla consistente erosione meteorica e dalle glaciazioni quaternarie. Circa 6 milioni di anni fa l’antenato del mare Mediterraneo si prosciugò in gran parte per la chiusura provvisoria dello Stretto di Gibilterra e così la zona di Costermano venne ad elevarsi come un’alto balcone sui bordi della grande vallata rappresentata dall’attuale lago di Garda, percorsa dall’antenato del fiume Adige. Subì così consistenti fenomeni di erosione. Verso i 5 milioni di anni fa il mare ritornò nella fossa benacense ma il territorio non venne più sommerso. Alla fine del Terziario, circa due milioni di anni fa, il territorio di Costermano era rappresentato da una pianura steppica con qualche collina, in cui pascolavano rinoceronti, mentre nelle zone più umide vi erano boschi di sequoie con scoiattoli (anche volanti), ghiri e topi. Nell’ultimo milione e mezzo di anni si succedettero nel territorio benacense, e quindi anche in quello di Costermano, 5 grandi glaciazioni, intervallate da altrettante fasi interglaciali: della prima (Donau da 1.700.000 a 1.400.000 anni fa), non restano quasi tracce; poche sono quelle del Günz (da 1.180.000 a 840.000 anni fa) mentre diventano più consistenti quelle del Mindel (da 480.000 a 250.000 anni fa), in particolare nei torrioni e nelle scarpate moreniche della Val dei Molini, così come si hanno consistenti depositi di morene e terreni delle ultime due, quella di Riss (da 190.000 a 120.000 anni fa) e quella del Würm (da 75.000 a 10-12.000 anni fa). In particolare alla glaciazione del Mindel che vedeva riunite le lingue glaciali del Garda e dell’Adige, sono attribuibili i terreni morenici insinuati e ferrettizzati della val Tesina, che ricoprirono la grande faglia che congiunge Garda a Caprino, mentre durante la glaciazione del Riss le «senge» di Marciaga furono levigate ed erose dalle enormi masse glaciali e si formarono le cerchiette più interne dell’anfiteatro morenico del Garda. Alla fase inter-glaciale temperato-calda del Mindel-Riss (da 250.000 a 190.000 anni fa) e del Riss-Würm (da 120.000 a 75.000 anni fa) si devono i notevoli strati di löess (polveri e sabbie portate dal vento) e di terreni argillosi rossastri depositati nella valle dei Molini ed in altre zone: è in questo periodo caldo che si diffonde una vegetazione a leccio. Durante l’ultima fase glaciale würmiana il ghiacciaio benacense si spingeva nella sua massima espansione in risalita formando una morena insinuata ad Est tra la Rocca (che fece da blocco) e la zona sotto San Zeno di Montagna e Castion. A Castion la lingua glaciale era interrotto dallo scaricatore glaciale della val Tesina; proseguiva ad occidente di Monte Arzilla, interrotta dallo scaricatore della val Strova, si appoggiava al Monte Madonna ed alle Sengie di Marciaga e piegava poi ad Est per formare il Monte Orione. Era poi interrotta dallo scaricatore di Marciaga e riprendeva a ridosso del Monte Bran, subito dopo proseguiva per Costermano e Monte Murlongo, dove era interrotta dallo scaricatore prima di Fraimonti; proseguiva poi per Monte Rovertondo e costituiva il Monte Campian, appoggiandosi quindi alle pendici del Monte Moscal (nella sua parte a Sud-Ovest). Ad oriente, il ghiacciaio atesino fermato dalla Chiusa nel suo movimento verso meridione, deviò verso Ovest fin quasi a raggiungere quello benacense e formò le cerchiette moreniche più interne dell’anfiteatro di Rivoli. Testimoni tipici delle glaciazioni, sono i «seregni», sassi in gran parte di natura vulcanica o metamorfica, arrotondati e levigati dai ghiacciai ed utilizzati da sempre dall’uomo per la costruzione di case e di muri a secco. Nelle fasi di disgelo ed al termine della glaciazione würmiana, si formarono dei laghetti nella piana di Caprino (che poi originarono il torrente Tasso), mentre alcuni scaricatori (torrenti di scioglimento del ghiacciaio) interruppero la regolarità delle cerchiette moreniche dei due anfiteatri del Garda e di Rivoli.

CENNI STORICI DI COSTERMANO SUL GARDA

Il primo insediamento di cui restano testimonianze certe nel territorio di Costermano, appartiene all’Età del Bronzo (1.800 – 1.000 a.C.) ed è rappresentato dagli elementi ceramici rinvenuti agli inizi degli anni ’80, in località Maóni: cocci con ansa lunata ed «a gomito» e vasi biconici, orli decorati a «dente di lupo» e presenza di cordonature oltre ad alcuni elementi lapidei come un percussore di quarzite.

 

Si trattava probabilmente di un modesto centro agricolo e pastorale, costituito da alcune capanne, posto su di uno sperone morenico dominante la Valle dei Mulini.

 

Nell’Età del Ferro (1.000 – 200 a.C.) abbiamo alcune testimonianze della frequentazione umana con le incisioni rupestri delle Sengie di Marciaga che raffigurano guerrieri con spade e scudi e cavalieri. Ritrovamenti di epoca romana avvennero nel 1879 ed all’inizio del ’900 a Valdoneghe, nelle località Castello e Campo della Morte ed a Ca’ Nova di Albarè (sepolture con corredi, coperchio di sarcofago, bronzetto di divinità idrica, monete, ecc.). Questi sporadici rinvenimenti di epoca romana non confortano la tesi sostenuta da alcuni studiosi dell’esistenza di villaggi in età romana e di una intensa romanizzazione del territorio di Costermano. Anche la toponomastica di molte località del territorio di Costermano che rimanda alla lingua latina, in realtà sembra far riferimento al latino medioevale. Si è quindi propensi ad ipotizzare un primo insediamento di tipo militare in seguito alla penetrazione dei Longobardi, sul finire del VI sec. ed alla fortificazione del territorio da essi operata. Lo sviluppo di veri e propri stanziamenti che daranno origine ai centri di Costermano, Marciaga, Castion e Sapora (successivamente Albarè) sarebbe invece conseguenza della presenza di possedimenti dei monasteri di San Colombano di Bobbio e di Santa Giulia di Brescia, a partire dai secoli VIII e IX.

Le aziende curtensi in cui erano stati organizzati i possessi dei suddetti monasteri, dove i terreni erano di norma suddivisi in una parte dominica, tenuta direttamente dal proprietario, ed in una massaricia, affidata a coloni in cambio della corresponsione di un canone spesso in natura e di prestazioni di lavoro gratuite, costituivano veri e propri centri di forte attrazione per le popolazioni date le opportunità da queste offerte e la necessità da parte delle stesse di numerose braccia che ne mettessero a profitto il vasto patrimonio fondiario. Doveva trattarsi evidentemente di semplici agglomerati rurali con case in legno e dai tetti di paglia o di canna, immerse in un paesaggio «selvaggio» con boschi e paludi dove le superfici coltivate bilanciavano quelle incolte in un ecosistema produttivo di tipo silvo-pastorale. Unica coltura specializzata era quella dell’olivo, probabilmente introdotta dagli stessi monaci per soddisfare il continuo bisogno d’olio da ardere nelle chiese e da usarsi nella somministrazione dei sacramenti dell’estrema unzione e della cresima.

 

Le prime testimonianze scritte riguardano l’esistenza di qualche località, come «Montegolo» attestato in un documento del 15 febbraio dell’810 («in fundo Cabrinade seu in Montecolo»), o corte, come quella di «Cervinica», attuale «Baesse», nucleo originario del villaggio presente in seguito, attestato il 15 dicembre dell’837, e pure di Marciaga, attestato in un documento del 29 aprile 839 («in Garda ubi dicitur Mercenaga»). Per Costermano invece, una prima attestazione risale al 22 luglio del 1045, contenuta in un diploma dell’imperatore Enrico III in favore del Monastero di Santa Giulia in cui gli abitanti del «Castrum quod vocatur Novum castrum situm in monte Rezino in vicinia Garde» sono esentati dall’obbligo di fornire ricovero e foraggio ai cavalli dei funzionari imperiali. Si tratta quindi dell’antica corte, menzionata fin dal secolo IX, che vide la costruzione di un castello (struttura rappresentata da palizzate, intervallate forse da qualche torre sempre in legno) da parte del monastero giuliano, che intendeva così proteggere e salvaguardare i suoi possedimenti. Sempre alla presenza di un «castello» si deve il toponimo «Castione», per alcuni studiosi documentato già nel 983, in un diploma di Ottone II in favore dei Canonici della cattedrale veronese non riferibile però al nostro, probabilmente sorto invece sempre anteriormente al Mille in relazione però alla presenza del monastero di San Colombano che in Bardolino aveva pure un piccolo priorato, e poi attestato sicuramente alla metà del XII sec. per i possessi in loco del medesimo monastero. Sempre nella metà del XII sec. dal documento «Breve recordationis de Terris Ecclesiae Sancti Columbani», viene provata l’esistenza di Albarè, allora denominata «Sopora» o «Sapora». Ad eccezione di Marciaga si tratta di vere e proprie «ville», come erano chiamati all’epoca i villaggi rurali, e come tali sono registrate in un censimento del 1184 eseguito dal comune di Verona («Castrum novum Abbatissae», «Castellonus supra Gardam» e «Castrum Albareti novelli qui olim dicebatur Sapora») che esprimeva una evidente volontà di espandersi nel contado, divenuto di vitale importanza per la sopravvivenza stessa della città. Questa espansione si realizza in parte nel 1193, quando l’imperatore Enrico VI cede il territorio della Gardesana da sempre soggetta direttamente all’Impero, al comune veronese: Costermano, Marciaga, Castion ed Albarè vengono così a dipendere da Verona. La nuova organizzazione territoriale fu però in parte ritardata dalle cruenti lotte fra guelfi e ghibellini, durate fino alla seconda metà del XIII sec. con la sconfitta e la morte di Ezzelino da Romano. Con la nomina a Podestà del comune di Verona di Mastino Della Scala il Garda occidentale ed il suo entroterra vennero organizzati in un distretto detto «Gardesana». Nel frattempo era in atto una progressiva decadenza degli enti monastici con il conseguente disfacimento del loro patrimonio fondiario ed il sorgere di una aristocrazia terriera laica, prima d’allora sconosciuta in area gardesana. Nel 1355 Albarè appare soggetto direttamente alla Fattoria scaligera, cioè al patrimonio personale dei Della Scala. Nel 1387 i Visconti dopo aver espugnata la rocca di Garda ed aver occupato anche Castion e Costermano, subentrarono agli Scaligeri nel dominio di Verona e territorio. A questi si deve, nel 1396, un estimo delle ville del veronese, raggruppate in otto colonelli: in quello della «Gardesana» sono ricordate le ville di «Casteiono supra Garda» con un coefficiente d’estimo in soldi 33; «Costarmata», toponimo che sostituisce il precedente «Castrum novum Abbatissae», con soldi 15; «Albaredo Gardexane» con soldi 3; e, finalmente, «Marciaga» che deve nel frattempo essersi staccata da Garda, con soldi 5. Tale organizzazione territoriale viene mantenuta anche con l’avvento della dominazione veneziana nel 1404, in seguito alla quale però Albarè viene venduto con atto del 1407 dal governo veneto al nobile Marco Torri per 342 ducati, che per altri 25 ne acquista pure i diritti sul dazio («Ser Marcus de Turris de Pigna emit totam possessionem de Albaredo Gardesane per ducatos CCCXLII. Et dacium dicte terre per ducatos XXV»). Il colonello della Gardesana appare suddiviso in colonello di sopra, comprendente gli attuali comuni di Malcesine, Brenzone e Pai; colonello di mezzo, comprendente Torri, Albisano, Garda e Costermano; e colonello di sotto, comprendente Bardolino, Cisano e Lazise.

 

Il potere civile viene esercitato da vicari che risiedono nei tre vicariati di Lazise, Garda, (nel quale sono compresi Costermano, Marciaga, Castion e Albarè), e Torri, partecipano alle riunioni delle vicinie comunali, qualcosa di simile alle attuali sedute consigliari, e hanno autorità a giudicare in civile fino a lire 10. Il potere militare appartiene invece al capitano del lago, eletto periodicamente dal consiglio della città di Verona, che risiede nella fortezza di Malcesine e ha il compito di sorvegliare il lago e di frenarvi i traffici illeciti come il contrabbando di biade, olio o vino. Allo scopo si serve di barche armate, ancorate nei porti di Lazise, di Bardolino e di Malcesine, il cui mantenimento grava sui comuni della Gardesana. Questi ultimi, per meglio salvaguardare i loro diritti e provvedere alle loro necessità, si riuniscono in una sorta di organismo sovraccomunale, detto «Gardesana dall’Acqua», comprensivo di ben 10 comuni lacustri, rappresentati da 18 consiglieri proporzionalmente alla consistenza demografica ed all’importanza economica dei singoli villaggi, che si riuniscono solitamente due volte all’anno, in primavera e in autunno, a Torri nel palazzo della Gardesana, attuale «Hotel Gardesana», alla presenza del capitano del lago che gode del privilegio di due voti contro uno per cadaun consigliere.

 

Costermano è membro della «Gardesana dall’Acqua» con diritto ad un unico rappresentante. Albaré fa invece parte della cosiddetta «Gardesana della Terra». Documento straordinario sulla consistenza demografica ed economica di Costermano e frazioni odierne è il censimento del 1430: Castion spicca di gran lunga per numero di abitanti, 299, seguito da Costermano con 141, Marciaga con 48 ed, infine, Albaré con soli 12. A Costermano emerge la famiglia Becelli che, dopo esserne stata livellaria, acquisterà nel l445 per 850 fiorini d’oro da Santa Giulia i possedimenti che da tempi antichi il monastero bresciano aveva in loco. La stessa appare beneficiaria delle decime di Costermano e Garda e proprietaria di una peschiera, dalla quale ricava 200 lire d’affitto all’anno, identificabile con la «Peschiera di San Vigilio» ceduta in seguito, nel 1452, agli antichi originari di Garda, Torri e Sirmione per 1000 ducati d’oro. Sotto il governo della Repubblica di Venezia il nostro territorio godette di stabilità politica, eccetto la breve parentesi imperiale di Massimiliano d’Austria dopo il disastro di Agnadello, e relativa tranquillità e benessere tanto che per trovare un avvenimento degno di nota si deve procedere fino al 1630, anno della terribile peste, immortalata nelle pagine manzoniane, che tante vittime ebbe a mietere anche da noi: ben saprebbero raccontarlo, se ne avessero facoltà, le chiesette di San Lorenzo alle Valdoneghe e della Beata Vergine del Soccorso ridotte a lazzaretti rispettivamente per le popolazioni di Albarè e Costermano, Castion e Marciaga. La località delle «Valdoneghe», ora parte del comune di Rivoli Veronese, divenne in quei tempi, grazie alla presenza dei Becelli che vi avevano notevoli possedimenti, capoluogo di comune così che nel secolo XVIII sussistevano ben cinque capoluoghi di comune: Marciaga, Castion, Costermano e Valdoneghe dipendenti dal vicariato di Garda; Albarè, che allora da solo costituiva un vicariato in seguito ai diritti di giurisdizione acquisiti sulla stessa dai conti Torri. Crollata la Repubblica Veneta dopo il trattato di Campoformio del 27 ottobre 1797, i nostri comuni furono soggetti all’Austria e, tranne il breve intervallo del Regno d’Italia (dopo la pace di Presburgo, 26 dicembre 1805, l’Austria dovette cedere i territori veneti avuti col trattato di Campoformio che il 30 marzo 1806 vennero annessi al Regno d’Italia e vi rimasero fino al crollo dello stesso dopo la sconfitta subita a Lipsia da Napoleone nell’ottobre del 1813), vi restarono, incorporati nel Lombardo-Veneto, fino al 24 agosto 1866, quando la pace di Vienna poneva fine alla III guerra d’indipendenza e consegnava il Veneto all’Italia.

 

Durante il Risorgimento, nella Guerra d’Indipendenza, Costermano, Castion ed i comuni della piana di Caprino assistettero ad alcune battaglie come nel giugno del 1848, quando i Piemontesi presero Rivoli e dovettero fornire generi alimentari e legname alle truppe austriache, chiedendo un successivo rimborso di 579 lire per Castion e di 1245 lire per Costermano.

 

Nel 1859 Costermano contava una popolazione di 738 abitanti con una rendita censuaria di 23,7 lire austriache, mentre Castion contava 729 abitanti con una rendita di 19,3 lire austriache. Con l’annessione all’Italia, gli antichi nostri comuni, che durante la dominazione austriaca erano stati uniti a Garda, tornarono in parte ad essere autonomi: Costermano però assorbì Albarè e Gazzoli, mentre Valdoneghe venne unito con Rivoli; Castion estese la sua giurisdizione anche su Marciaga.

Primi sindaci furono Sante De Beni (1870-1871) per Costermano e Francesco Lavezzari (1867-1876) per Castion. Nel 1889, quando era Sindaco di Costermano il conte Girolamo Giuliari (dal 1882 al 1892), venne inaugurata la linea ferroviaria Verona-Caprino che toccava anche Costermano. Nel 1928, in conseguenza di una politica di accorpamento del governo, Castion perse la propria autonomia amministrativa e con Marciaga entrò a far parte del più ampio comune di Costermano.

Il 26 aprile 1945, poche ore prima dell’arrivo delle truppe americane, alcuni aerei sganciarono delle bombe su Albarè causando la morte di 11 civili.

Dal 1945 al 1947, l’amministrazione comunale fu retta da Umberto De Beni, seguito da Ottavio Pellegrini (1947-1951) e da Giovanni Ferrario (1951-1956).

A partire dal 1957 venne costruito il Cimitero Militare Tedesco, inaugurato nel 1960, in cui furono raccolte oltre 22.000 salme.

Nel 1956 fu eletto Sindaco Luigi Benedetti che tenne la carica di primo cittadino fino al 1980 quando la lasciò a Franco Ferrarini che la ricoprì fino al 1995. Da allora è sindaco Giorgio Castellazzi.

Costermano possiede uno stemma formato da un riquadro azzurro in cui campeggiano un fascio littorio, una alabarda ed un’asta d’oro posti a ventaglio di uno scudo centrale con la scritta S.P.Q.R.

CENNI DI STORIA ECCLESIASTICA DI COSTERMANO SUL GARDA

La tradizione vuole un’evangelizzazione del Garda orientale e dell’area baldense a partire dal IV secolo attraverso la solerte azione di san Vigilio a nord e di san Zeno a sud, ma invero, una conversione dei nostri antichi progenitori dovette essere piuttosto lenta e complessa, in tempi presumibilmente diversi e conseguenza, infine, di una molteplicità di componenti anche occasionali quali il transito di mercanti o la presenza temporanea di famiglie gentilizie o di ufficiali cristianizzati. L’opera dovette comunque essere poi continuata da eremiti, si pensi ai santi Benigno e Caro sopra Malcesine cui nell’807 spettò l’onore di trasportare le reliquie di San Zeno nella nuova basilica e, soprattutto, dai monaci dei monasteri di San Zeno di Verona e di San Colombano di Bobbio che rispettivamente avevano in Bardolino una cappelletta ed un piccolo priorato. Intorno al IX-X secolo però un clero regolare, dipendente dal vescovo di Verona, subentrò decisamente ad eremiti e monaci nell’assunzione della cura delle anime. Il territorio della diocesi venne suddiviso in distretti detti pievanie, la giurisdizione sulle quali spettava ai pievani, sorta di arcipreti vicari, per trovare una corrispondenza coi nostri giorni, che risiedono presso le chiese matrici o pievi. Solo in queste si officia stabilmente e vengono somministrati i Sacramenti: il fonte battesimale ne è esclusiva prerogativa.

Sparse poi per il territorio della pieve ci sono ovviamente altre chiese, e le cappelle, dipendenti da quella matrice, officiate occasionalmente o via via con maggior continuità, in relazione alla consistenza dell’insediamento umano, da altri sacerdoti soggetti al pievano che in un primo tempo risiedono collegialmente presso la «domus sacerdotum» della pieve. Se in queste però è più o meno possibile assistere regolarmente alla celebrazione della Messa e ricevere l’Eucarestia. Per il Battesimo, la Cresima, e la distribuzione dell’Olio santo bisogna assolutamente recarsi alla pieve. Oltre alle cappelle che potremmo definire curate, cioè godenti della presenza di un sacerdote pur temporanea, vi erano poi altre chiese in cui però non si officiava se non occasionalmente e si limitavano in genere ad essere luoghi di preghiera, da cui il termine «oratori»: pubblici, gentilizi o monasteriali; piccoli tempietti infine, per lo più in funzione di culti particolari, in genere di qualche Santo di cui si conservavano anche delle reliquie, venivano detti «sacelli».

 

L’organizzazione pievana della diocesi di Verona viene illustrata da un documento eccezionale, una conferma di beni redatta nel 1145 dal pontefice Eugenio III in favore del vescovo Teobaldo; in questo infatti, vengono elencate tutte le pievi: per il Garda orientale chiese pievane erano rispettivamente a Peschiera, Lazise, Cisano, Garda e Malcesine; per l’area propriamente baldense a Caprino e Brentonico. Costermano e frazioni odierne erano comprese nella pieve di Garda, da cui dipendevano le loro chiese, meno eventualmente, le monasteriali, cioè di qualche monastero, e quindi soggette all’autorita dell’abate. Nei secoli successivi tale ordinamento entrò però in crisi e tra il XV ed il XVI secolo, se non prima si ebbe il distacco delle antiche cappelle dalla chiesa matrice ed il loro costituirsi in parrocchie autonome: questo poteva avvenire per libera collazione o per giuspatronato, nel qual caso un signore, un ente o un’intera comunità si assumeva gli oneri del mantenimento della chiesa e del parroco, avendone in cambio il diritto di proporne la candidatura.

 

(In una lettera del pontefice Onorio III del 5 giugno 1218 all’arciprete della pieve di Caprino si legge che questi ha ben dodici cappellani, ognuno dei quali, pur risiedendo ancora presso la «domus sacerdotum» della pieve, è rettore di una cappella. Si tratterebbe a nostro avviso di un segno dell’incipiente trasformazione delle singole cappelle in parrocchie autonome già a partire dal secolo XIII).

Nel XV secolo appaiono già parrocchiali le chiese di San Verulo di Castione e di Sant’Antonio Abate, sulla quale esercita il diritto di giuspatronato la comunità di Costermano; SS. Filippo e Giacomo di Marciaga lo diverrà nel corso del secolo XVI, e San Lorenzo di Albarè solo in tempi recentissimi. Nel 1522 con bolla pontificia di Adriano VI la pieve di Garda veniva concessa in beneficio all’Ospedale Maggiore di Brescia e quindi anche le nostre chiese che, pur evolutesi in parrocchiali, mantenevano certi vincoli di sudditanza con la pieve. Solo il 10 agosto 1962 l’Ospedale di Brescia avrebbe rinunciato ai suoi diritti. Delle altre chiese disseminate un po’ ovunque nell’ambito dell’attuale territorio comunale ricorderemo almeno SS. Fermo e Rustico ad Albarè, nominata in un documento di metà secolo XII, e dopo lungo abbandono in procinto ora d’essere restaurata;  San Zeno in Bordiono, cella monasteriale di San  Colombano nel secolo XVI;  San Verulo, detto San Verolo, di origine romanica e antica parrocchiale di Castion; la Beata Vergine del Soccorso, tra Castion e Marciaga, santuario mariano sorto nel secolo XVI; e Santa Croce, presso villa Giuliari, costruita dai conti Torri  nella prima metà del secolo XVIII.

 

ASPETTI NATURALISTICI PARTICOLARI DI COSTERMANO SUL GARDA

Il territorio di Costermano, pur nella sua modesta estensione, possiede ambienti dalle particolari valenze naturalistiche. Nel presente capitolo approfondiamo la conoscenza di alcuni di questi ambienti, che rappresentano una percezione visiva di precisi elementi del paesaggio, costituenti un’immagine familiare per gli abitanti di Costermano.

  • L’anfiteatro morenico del Garda, testimone delle fasi glaciali che hanno modellato il territorio di Costermano nel Quaternario.
  • Le Sengie di Marciaga, pareti rocciose verticali che dominano come un festone il paesaggio ad Ovest di Marciaga.
  • La val dei Molini che taglia il territorio di Costermano, incidendo le morene quaternarie e formando un paesaggio unico, con un ambiente ricco di flora e fauna particolari.
  • Il Monte Belpo, rilievo caratteristico dalla forma tondeggiante, la pineta delle Sperane, consistente rimboschimento di conifere al confine con San Zeno; i grandi alberi che con la loro presenza segnano alcune parti del territorio.

L’anfiteatro morenico del Garda

Le glaciazioni quaternarie hanno lasciato nel territorio di Costermano testimonianze della loro azione nell’anfiteatro morenico del Garda. In particolare, è riscontrabile una forma ad arco frontale con cordoni e dossi dovuti al ghiacciaio würmiano che nella zona di Garda è risalito verso Est perché fermato nel suo movimento di espansione dal rilievo della Rocca e costretto da quello del Monte Luppia. I principali cordoni morenici sono costituiti dai Monte Canforal (m 426) e Monte Arzilla (m 317) nella zona di Castion con orientamento da N-O a S-E e di probabile origine Rissiana; dal Monte Orione (m 309), Monte Bran (m 312), Monte Carpene (m 280), Monte Murlongo (m 267) e Monte Rovertondo (m 279) che formano delle cerchiette disposte lungo un arco di circonferenza, con centro nelle Giare di Garda ed attribuite al Würm. Vengono poi i cordoni di Villa Albarè (m 272) e Monte Campian (m 324) orientati in senso N-S ed anch’essi würmiani. Queste morene sono costituite da materiali di diverso spessore, che vanno dalle sabbie fini, alle ghiaie, ai ciottoli, ai grandi massi erratici, ed ai conglomerati tutti mescolati tra loro, mentre nelle zone interessate dai torrenti di scioglimento glaciale e nei conoidi si possono osservare delle deposizioni di materiali morenici stratificati. I ciottoli ed i massi erratici, arrotondati e levigati a causa dello scorrimento e della pressione esercitata dalla massa glaciale sono in gran parte di colore scuro (marron, rosso o verde) e presentano grossi cristalli.

 

Si tratta particolarmente di rocce metamorfiche o vulcaniche costituite soprattutto da porfidi, quarziti e filladi provenienti dall’Alto Adige o dalla zona Adamello-Presanella (e quindi con percorsi di diverse decine di Km), denominati localmente «seregni» ed utilizzati dall’uomo per la costruzione di muri a secco o di abitazioni.

 

Le colline ed i cordoni morenici sono in buona parte ricoperti da boschi misti di roverella, carpino ed orniello, con consistenti presenze di cipressi e pini neri d’Austria dovuti a rimboschimenti, ma i versanti più dolci sono coltivati a vigneto ed oliveto. Molte colline, soprattutto quelle della parte centrale, sono state  trasformate negli ultimi trent’anni da insediamenti, lottizzazioni urbanistiche e villaggi turistici.

Le Sengie di Marciaga

Si tratta di formazioni rocciose calcaree, caratterizzate da pareti a picco, costoni rocciosi, falesie e cengie di colore giallo-rosato o rossastro, costituite da rocce di Calcari Grigi, Calcari Oolitici, Rosso Ammonitico e Biancone. Le Sengie di Marciaga formano il versante orientale della dorsale di Monte Croce (411 m), Monte Bandiera (460 m) e Monte Lenzino (479 m) con orientamento da N-E a S-O, che prosegue poi a meridione, interrotta dalla val Volpara, con le Sengie di Monte Luppia. Sono ricoperte in gran parte da una vegetazione di tipo sub-mediterraneo con roverella e carpino,  e presentano vari lecci e lauri sempreverdi, ed inoltre rimboschimenti di pino nero austriaco ed impianti di cipressi. Nel sottobosco, numeroso è il pungitopo che rende impenetrabili alcune aree. Su queste sengie si trovano diverse incisioni rupestri, le più antiche delle quali sono attribuite alla prima Età del Ferro, e rappresentano figure di guerrieri con scudi e spade, e qualche cavaliere, rivolti verso la pianura a fronteggiare il nemico che arriva dal basso. Ma vi sono anche numerose croci del periodo medioevale e moderne, così come coppelle (piccole vaschette e fori circolari) e giochi del «merler» (filetto).

 

Le incisioni, per la maggior parte si trovano su rocce lisciate dai ghiacciai e sono frutto del picchiettare di ciottoli duri o di sassi appuntiti sulla pietra liscia. Alcune, come quelle che rappresentano il «merler» sono state eseguite da pastori o da soldati. Scoperte e studiate dal prof. Mario Pasotti e dal prof. Fabio Gaggia, le incisioni della zona, assieme a quelle di Monte Bre e Monte Luppia sono descritte esaurientemente nel volume «Le incisioni rupestri del lago di Garda» di F. Gaggia, edito nel 1982, cui rimandiamo per approfondimenti.

Sulle Sengie si può praticare l’arrampicata libera «free-climbing», in quanto sono state attrezzate e chiodate numerose vie su cui gli appassionati possono arrampicare.

 

In particolare, la palestra di Marciaga presenta alcune vie chiodate che vanno dai 10 ai 30 metri su di un solido calcare, con difficoltà che vanno dal II grado alpinistico al 6 c, consigliate a coloro che sono alle prime esperienze di arrampicata, e da percorrere comunque con estrema attenzione, dopo essersi assicurati della stabilità dei chiodi.

 

La val dei Mulini

Di origine post-glaciale, la valle dei Molini scende dalle alture ad Est di Campagnola (232 m) fino alla provinciale Garda-Costermano (127 m), sviluppandosi per circa 1800 m di lunghezza nei comuni di Costermano e Garda. È percorsa dal torrente Tesina che assume anche il nome di Gusa nella zona di Garda ed ha una portata media di 0,8 m/s. La valle, che ha una direzione da N-E a S-O, si è formata con molta probabilità dopo l’ultima glaciazione würmiana per erosione regressiva da parte del torrente Gusa che ha intaccato il cordone morenico di Monte Bran e di Monte Carpene catturando le acque del torrente Tesina e della val Strova che precedentemente scorrevano verso la piana di Caprino. Dopo tale cattura la valle si è approfondita in modo consistente, tanto che in alcuni punti vi è un’erosione di 80-100 metri rispetto ai terreni morenici circostanti. In numerosi punti della valle, le ripide pareti mostrano la successione dei vari depositi morenici e fluvio-glaciali del Quaternario: si va da depositi morenici sul fondo con elevata percentuale di limi e pochi ciottoli, talvolta cementati, attribuiti alla glaciazione Günz, a strati sovrapposti di conglomerati fluvioglaciali cementati, alternati a depositi morenici cementati da carbonato di calcio, attribuiti al Mindel, e poi, verso l’alto, livelli di ferretto con scisti e gneiss e di limi (loess) del Riss e del Würm. La valle dei Molini possiede lungo il torrente una vegetazione umida molto interessante, con salici, ontani neri, olmi, pioppi, robinie, ailanti e con arbusti di sambuco, caprifoglio e biancospino. Tra le specie erbacee, vi sono giunchi, papiri, equiseti, menta acquatica, nonché saponaria, farferuggine, iperico ed alliaria. Sui versanti della valle vi sono poi roverelle, carpini e frassini, oltre a scotano e pungitopo. È stata segnalata anche la presenza della rara Gypsophila papillosa. Il torrente è abitato da una fauna che comprende invertebrati quali insetti tricotteri, libellule e coleotteri, sanguisughe (irudinei), gamberi di fiume, lumache. Vi sono poi anfibi, qualche biscia d’acqua, uccelli, nonché si nota la presenza della volpe e del tasso. La valle, fin dall’antichità vide la presenza di mulini, che le dettero il nome, tanto che sulla pietra d’ingresso del mulino di Cà Tenaia è scolpita la data 1136 ed in documenti del XII sec. se ne parla già.

 

Oggi i mulini non sono più utilizzati, mentre è possibile visitarne uno, minuziosamente ricostruito nei suoi meccanismi (mulino degli eredi di Ferri Giovanni). Anche l’estrazione del gesso, che interessava un tempo la parte più meridionale della valle, è cessata da decenni. I comuni di Costermano e Garda hanno realizzato nella valle un percorso-salute con la predisposizione di attrezzature idonee. Per chi vuole approfondire la conoscenza della valle dei Molini, consigliamo la lettura dell’omonimo volume edito nel 1990 dal Centro Studi Benacense e curato da F. Gaggia e G. Sala.

 

Il monte Belpo, la pineta delle Sperane ed i grandi alberi

Con i suoi 880 metri di quota, il Monte Belpo, rilievo dalla caratteristica forma arrotondata che si innalza bruscamente sulla piana di Pesina, fa parte dell’anticlinale baldense che si è piegata verso Ovest sotto la spinta delle zolle provenienti da S-E durante l’orogenesi nell’Era Terziaria. È costituito da Calcari Grigi, Calcari Oolitici, Rosso Ammonitico, Biancone e da rocce dell’Eocene. In particolare la presenza di numerosi nuclei di selce (arnioni) all’interno della formazione del Biancone sembra aver esercitato un richiamo sull’uomo del paleolitico che qui saliva per rifornirsi di materiale per punte di lancia e di freccia, come alcuni ritrovamenti di manufatti in selce dimostrano.

Il monte Belpo appartiene geograficamente a tre comuni, dei quali Costermano possiede il versante occidentale che è il più boscoso ed è solcato dalle valli Sasse e Cotto, tributarie del torrente Tesina.

 

Sempre sul versante occidentale del Monte Belpo e sul versante meridionale del Monte Sisam vegeta l’estesa pineta delle Sperane, appartenente in buona parte anche al comune di San Zeno di Montagna.

 

Si tratta di un vasto rimboschimento forestale con prevalenza di pino nero austriaco, ma anche con presenza di abete rosso e larice, iniziato alla fine del secolo XIX e continuato nei primi decenni del XX sec. ed insediato tra i 600 e gli 800 metri, a monte di una fascia di castagni, oggi in parte abbandonati.

 

Nel territorio di Costermano si annoverano alcuni grandi alberi, spesso secolari, che assumono una rilevante concentrazione nel parco di villa Giuliari ed in quelli di villa Pellegrini e di villa Ferrario. Per quanto riguarda i Roveri (Quercus petraea), notevoli dimensioni possiedono quelli di contrada Rovere e quelli in fianco a Cà del Bosco, mentre tra le Roverelle (Quercus pubescens), le due del parco di villa Giuliari ad Albarè sono le più grandi ed antiche del veronese: la maggiore possiede infatti un fusto di 5 m di circonferenza ad un metro e mezzo di altezza, un’altezza di 18,5 m e un’età stimata in circa 500 anni. Sempre nel parco di villa Giuliari vi è inoltre un cedro (Cedrus deodara) di un secolo d’età, con un fusto avente una circonferenza di 4,65 metri che si divide in quattro rami principali, alti quasi 30 metri. Da menzionare sono poi alcune grandi piante esotiche del parco di villa Pellegrini a Castion, le magnolie, i cedri, i faggi ed i tassi del parco di villa Ferrario, così come i pioppi bianchi del viale d’accesso a villa Albarè e gli ippocastani di Castion, o alcuni vecchi castagni (Castanea sativa) nell’alta val Sasse.

 

ASPETTI STORICO-ARTISTICI ED ARCHITETTONICI PARTICOLARI DI COSTERMANO SUL GARDA

Gli aspetti storico-artistici ed architettonici di un certo valore presenti nel territorio di Costermano, sono abbastanza numerosi anche se poco conosciuti, così come i numerosi esempi di arte ed architettura popolare. Le corti, i capitelli, le ville, i monumenti e le chiese rappresentano un patrimonio culturale che va conservato e valorizzato perché testimonianza diretta dell’uomo e di civiltà del passato che possiedono ancora dei messaggi e dei valori da trasmetterci.

  • Le ville. Si tratta di edifici, in gran parte del XV-XVIII sec. che la nobiltà si fece costruire come dimora estiva e come nuclei di consistenti aziende agricole, arricchiti e completati da giardini, parchi ed elementi decorativi di pregio (affreschi, statue, fontane).
  • Le chiese. Oltre alle Parrocchiali di Costermano, Castion, Albarè e Marciaga, sul territorio sono presenti le chiesette della Madonna del Soccorso, di San Verulo, di San Zeno, di San Lorenzo, di Santa Croce e di San Fermo, ed un paio di oratori. Un patrimonio vasto per un territorio relativamente piccolo.
  • I numerosi capitelli, le croci e le edicole votive, testimoniano la devozione popolare di ogni contrada e gli ex-voto.
  • Le corti, i muri, i mulini, i pozzi e le fontane, sono espressione di una civiltà contadina e di un artigianato popolare che impiegava sapientemente tecniche tradizionali e materiali locali.

 

Le ville

Nel territorio di Costermano sono presenti alcune ville che la nobiltà si fece costruire tra il XV e XVIII sec. (a parte villa Basco edificata nel XIX° sec.), in zona collinare o comunque panoramica, sia come dimore per soggiornarvi in estate, sia per sviluppare colture agricole nei vasti possedimenti circostanti. Costruite con elementi architettonici di distinzione ed in stili compositi, svolsero un importante ruolo come centri socio-economici e come nuclei di attrazione e di regolazione per nuovi insediamenti, contribuendo a modificare e caratterizzare il paesaggio locale.

 

Villa Becelli – Rizzardi. Sorge in centro a Costermano e si presenta con un palazzo quattrocentesco, costruito dai Becelli, ampliato nel 1594 e trasformato nelle forme attuali tra il 1810 ed il 1820, con alle spalle il parco addossato alla collina. Il palazzo, che dal 1851 passò ai Rizzardi, possiede due torri merlate angolari ed un portale d’ingresso ad arco, in pietra bugnata, con stemma in chiave. Il pianterreno è adibito a cantine, magazzini e scuderie, mentre al primo piano vi sono un salone centrale ed alcune stanze affrescate con paesaggi lacustri e cittadini e con scene mitologiche, in parte dipinte da Luigi Livieri nel 1818. Alle spalle vi è il parco con siepi di bosso, e numerose piante ad altofusto, in cui si trova l’oratorio del 1764 dedicato all’Assunta, presentante facciata a capanna e soffitti a capriate e volta, ed un altare marmoreo che reca una pala con «Maria Assunta fra angeli e i Santi Giovanni Battista e Girolamo». Alla sommità della collina vi è un roccolo con ballatoio-belvedere sul lago e sulla piana di Caprino con il Monte Baldo. Per desiderio degli attuali proprietari, la villa non è purtroppo visitabile.

Pag. 096 - Villa Bacelli

 

Villa Torri-Giuliari. Posta sulla collina a Sud-Ovest di Albarè, la villa comprende il palazzo, con davanti un cortile con pozzo e di fronte le ex-scuderie con portico a 13 arcate e la chiesetta di Santa Croce, mentre sul retro vi è un vasto parco. Un primo palazzo fu costruito dai conti Torri nella prima metà del XV sec., in quanto già dal 1407 avevano possedimenti in loco; in seguito ampliato e ristrutturato, il palazzo fu rialzato di un piano e portato alle attuali forme nella prima metà del XIX sec., quando divenne proprietà dei Giuliari. Un portale sormontato da poggioli e dallo stemma dei Giuliari conduce nel salone d’ingresso, dal quale uno scalone porta alle stanze dei due piani superiori, alcune decorate, ed in cui pare aver lavorato l’architetto Ignazio Pellegrini. L’interno del palazzo non è visitabile in quanto in fase di restauro (primavera 1996). Dal cortile una grande e scenografica scala simmetrica, ornata di verde, conduce alla sommità della collina morenica, dove tra piante di altofusto, vi è una pagoda. Dietro il palazzo si estende il giardino con 7 colonne, e per tutta la collina il vasto parco di circa 20 ettari, che comprende secolari roverelle (tra cui due, sono le più antiche del veronese, con i loro 5 secoli di vita), tassi, lecci, cipressi e cedri (fra cui uno secolare, con 4 grandi cormi verticali, alti quasi 30 metri); qui vi è una torretta di quattro piani con merli ghibellini e ballatoio da cui si gode un bel panorama sulla piana di Caprino e verso il lago. La chiesetta di Santa Croce fu edificata nel 1726 e conserva alcuni dipinti e le tombe degli ultimi Giuliari-Tusini. La villa è oggi di proprietà dell’Istituto Salesiano che consente previa richiesta, la visita del parco e della chiesetta.

 

Villa Ferrario. È in centro a Costermano dietro l’ex-Municipio (ora Biblioteca Civica). È costituita da un palazzo degli ultimi decenni dell’ottocento, senza particolari valori architettonici, inserito all’interno di un grande parco con piante ad altofusto, alcune delle quali esotiche, considerato Monumento Nazionale.

 

Villa De Beni. Ottocentesca, posta ad Est di villa Ferrario, conserva un palazzo con scalone centrale che porta alle stanze del piano superiore, in parte affrescate. Sotto la gronda del palazzo, sono conservati alcuni brani di pitture e fregi, tra cui una Madonna con Bambino sulla facciata esterna. Ha sul davanti un bel giardino con aiuole di bosso, ombreggiate da alti cedri, faggi, magnolie e lecci.

 

Villa Pellegrini Cipolla. Si trova a Castion e dalla piazza della chiesa si presenta con un suggestivo cancello d’ingresso in ferro battuto con stemma e statue di guerrieri, che dà sul giardino all’italiana, e con un vasto parco che fa da cornice altamente scenografica al palazzo settecentesco, mentre a settentrione vi sono l’ex abitazione del fattore (oggi sede del FOR) ed a meridione la serra e le scuderie. Il tutto è armoniosamente inserito nell’ambiente naturale e richiama in scala ridotta le scenografie di Versailles. L’attuale palazzo, costruito nel 1760 su progetto dell’architetto Ignazio Pellegrini, sorge su di un edificio precedente, del sec. XV appartenuto ai Campagna ed ai Peccana, di cui restano tracce nelle murature, poi modificato nella prima metà del XVII sec. da Francesco Pellegrini. Il palazzo presenta un corpo centrale a tre piani, di un bel colore rosso, con lesene verticali e con due torri laterali a quattro piani, simmetriche, con sul davanti due loggette. All’interno vi è un doppio atrio con colonne marmoree, uno in linea con il viale d’ingresso del giardino e terminante alla statua di Ercole, sulla cui base è inciso il motto di famiglia «ne quid nimis», l’altro, perpendicolare, in linea con lo scalone per i piani superiori, con le statue di Carlo e Federico Pellegrini, fratelli di Ignazio, grandi ufficiali dell’esercito austriaco. Ai lati degli atri, vi sono lo studio, le cucine e le sale da pranzo, la cappella ed un oratorio a forma di grotta. Lo scenografico scalone conduce al primo piano, ad un loggiato dove si apre il salone principale con alle pareti due grandi affreschi di vita agreste e di un paesaggio lacustre, delle statue di Ercole, Minerva, Marte e Diana (in stile manieristico), e e con il soffitto presentante scene mitologiche ed un quadro centrale che raffigura la Primavera tra personaggi arcadici. Sulla destra entrando, vi è un salotto affrescato con «cineserie»: momenti di vita in villa, decorazioni di colore azzurro-verde e giallo ed animali esotici, tra cui uno scoiattolo che reca lo pseudonimo del pittore: «Il Coqualino». Anche nelle altre stanze vi sono dipinti, fregi e decorazioni, che raffigurano episodi di villeggiatura, di lavori in villa e di vita agreste della fine del ‘700, tra cui ricordiamo la camera della musica tutta tappezzata in carta e velluto e recante un fortepiano del XVIII sec., un salottino con caminetto, specchi, stucchi e tappezzerie bianco-azzurre, una camera con alcova preceduta da una originale «comoda» (WC). Sulla sinistra del salone vi sono altre stanze affrescate e decorate. Anche al secondo piano vi sono stanze da letto (in tutta la villa sono 55). Caratteristici sono i pavimenti in cotto, di forma e colori diversi. La villa, nata nel medesimo tempo come dimora nobiliare estiva e centro propulsore agricolo, nel suo assetto urbanistico si discosta dalla tipologia delle ville venete per assomigliare più a quelle toscane ed all’architettura austriaca. Molto bello è il giardino all’italiana che precede il palazzo, ricco di viali con le statue delle quattro stagioni, di divinità e di guerrieri e terminante con una gradinata semicircolare con due statue di schiavi incatenati. Il parco, alle spalle del palazzo, possiede molte piante ad alto fusto che, con i boschi delle pendici del Monte Belpo incorniciano in modo altamente scenografico la villa. Qui vi è anche una «giassàra» ed un laghetto nei pressi del torrente Tesina. Villa Pellegrini è visitabile anche all’interno, previo permesso richiesto ai conti Pellegrini-Cipolla.

 

Villa Basco. È un palazzo ottocentesco che si trova in località Castel di Marciaga, fatto costruire dal caprinese Nicola Gaiter nel 1876. L’edificio, che si trova inserito tra i ruderi di un castello, è a due piani con un corridoio che lo attraversa, mostrante un bassorilievo sulla vita dei Sette Santi. In una sala centrale sono conservati oggetti e ricordi del patriota.

 

Villa Marchi. Si trova fuori del centro storico di Costermano, all’incrocio tra via Fontane con la provinciale per Garda. Acquistata dai Marchi nel 1882, in precedenza era dei Becelli, di cui si conservano tracce di un palazzo settecentesco. Fu sistemata ed ampliata nel XIX sec. ed ai primi del XX. Si presenta con una corte su cui si affacciano due corpi principali, a forma di L, costituiti dalla casa padronale più alta, dalla casa rurale e dai portici con la pittura a righe di color mattone e giallo. L’interno della casa padronale conserva l’originale impianto ottocentesco con scala centrale di fronte all’ingresso. Nei soffitti di alcune stanze vi sono pitture e medaglioni ottocenteschi. Numerosi sono i camini. Sulla sinistra dell’edificio, sopra la collina della Guardia, esisteva un lungo filare di cipressi, di cui oggi ne restano cinque. Il fondo rustico conserva la struttura a terrazze, coltivate a viti, olivi e frutteto (tra cui «peri trentossi»), e presenta un bosco d’alto fusto con roveri, aceri, frassini, cipressi, platani ed abeti, posto in una valletta con risorgive conosciuta come Corsella e dotata di un lavatoio per i panni. La villa fu abitata dal pittore Angelo Marchi.

 

Le chiese

Nel territorio di Costermano molto numerose sono le chiese. Infatti vi sono ben quattro chiese parrocchiali e cinque chiesette minori, oltre ad un paio di cappelle annesse a ville.

 

La chiesa parrocchiale di Costermano. Venne costruita nelle forme attuali nel 1850 in stile neoclassico, su di un precedente edificio, in quanto la parrocchia nacque nel 1497, separandosi da Garda. È dedicata a S.Antonio Abate, protettore degli animali, come si può notare dall’affresco nella lunetta della facciata, eseguito dal caprinese Ludovico Morando, festeggiato il 17 gennaio. La facciata è ornata da quattro lesene con basamento in marmo. L’interno si presenta molto semplice, lineare, ad una navata con due cappelle laterali. L’altar maggiore è in marmi policromi, con trono ornato da quattro colonnine, mentre a destra vi è l’altare dedicato alla Madonna del Rosario (con statua lignea della Val Gardena e con affrescati nella cappella due angeli inginocchiati davanti al Santissimo, opera di A. Marchi), preceduto da un arco con due colonne di marmo bianco, ed a sinistra l’altare di S. Antonio abate in marmo giallo di Torri ed in Biancone (statua lignea del Santo, con bastone e campanelli). Particolarmente interessante è il piliere dell’acqua santa (XVI sec.) in Rosso Ammonitico che presenta lo stemma dei Becelli (leone rampante con fiore nella zampa destra) e l’epigrafe «VAL B». Pure importante è il fonte battesimale, sempre in Rosso Ammonitico, di forma ottagonale, del XVI sec. Nel Presbiterio, al centro del coro si può notare una bellissima tempera su tela «Il Redentore e i SS. Antonio abate, Lorenzo e Floriano« opera della scuola del Cavazzola. Sono da ammirare anche alcuni affreschi sulle pareti in alto. Di un certo valore sono le statue lignee che rappresentano il gruppo dell’Addolorata e Sant’Antonio, patrono della chiesa. Particolare è anche l’acquasantiera, a forma di conchiglia, in marmo giallo, inserita nel muro, a sinistra dell’ingresso. Il campanile presenta orologio, pinnacoli e tre croci, ed è dotato di alcune campane antiche e di una recente. Nel vicino Oratorio si trova un quadro di A. Marchi del 1946, che rappresenta la «Madonna che protegge il paese dalla guerra» con sullo sfondo la Rocca ed il Garda ed attorno numerose figure, ritratti della Superiora dell’Istituto Canossiano, di alcune orfanelle ed alcuni parenti del pittore.

 

La chiesa parrocchiale di Castion. Castion era parrocchia già nel 1456, separata da Garda, ma la chiesa era quella di San Verulo. L’attuale parrocchiale, edificata nel 1752 su progetto dell’architetto Ignazio Pellegrini, si presenta in stile tardo-barocco con facciata movimentata da due serie sovrapposte di quattro lesene, da un bel portale marmoreo con statue di angeli che fanno corona alla Maddalena, ed in alto dalle statue di San Floriano e San Verulo. La chiesa fu consacrata nel 1812, ed è intitolata a Maria Maddalena. L’interno è ad una unica navata con volta affrescata da Domenico Paleus e presentante 5 altari: da sinistra vi è quello della metà del XVIII sec. in marmi policromi, che mostra quattro colonne ed un arco barocco che racchiudono il quadro d’autore ignoto della «Madonna con Bambino, S. Giuseppe, Sacerdote martire e S. Luigi Gonzaga»; segue l’altare della Madonna del Rosario in marmo rosso e giallo e l’altar maggiore con quattro colonne che reggono il baldacchino del trono. A destra vi è l’altare dell’Addolorata con ai lati le statue di San Giovanni e di un Santo Pontefice, nonché l’altare del Sacro Cuore in marmo giallo con pala raffigurante il «Sacro Cuore e Santa Margherita. Nel coro vi è una pala molto interessante, della seconda metà del XVI sec., attribuita a Felice Brusasorci o al Caroto: «Madonna con Bambino tra i santi Andrea, un Vescovo,Verulo, Floriano e Paolo». Vicino all’entrata vi è un piliere in marmo giallo di Torri del 1764, ed il battistero a forma di «fior di loto», mentre da ammirare sono anche i quadri della «via crucis» di Giovanni Caliari. Il campanile porta cinque campane, di cui una del 1647.

 

La chiesa parrocchiale di Marciaga. Dedicata agli apostoli S. Filippo e S. Giacomo, la chiesa attuale è un rifacimento settecentesco di una chiesa precedente del XVI sec.; la parrocchia è nata infatti nel 1541 con la separazione dalla Pieve di Garda. Presenta la facciata in stile neoclassico con un portale al centro e nella parte superiore una finestra rettangolare con ai lati le statue dei Santi Patroni. Nell’interno sono degni di nota i tre altari: quello della Madonna del Rosario (a sinistra), in marmi policromi, l’altar maggiore, settecentesco, che proviene dalla chiesa di S. Gallo di Pesina, e quello dell’Addolorata (a destra) con statua incorniciata da marmi di colore scuro. Di buona fattura sono un dipinto ad olio su tela del 1764, posto nel coro, che rappresenta i santi Filippo e Giacomo, il dipinto seicentesco della «Madonna con Bambino e Santi Luigi Gonzaga e Tommaso d’Aquino», entrambi di autore ignoto; nonché il dipinto «San Carlo Borromeo e Giovanni Battista» del Bassetti, posto nei pressi dell’ingresso. Nella volta del presbiterio vi è inoltre un affresco dello Spirito Santo e nelle lunette sono rappresentati i quattro evangelisti, mentre nella volta della navata vi sono due affreschi del Bolla del 1908. La «via Crucis» è del 1890. Il campanile, costruito nel 1686, conserva cinque campane e reca la scritta M.I.A. – Misericordia che attesta la sua dipendenza dall’Ospedale Maggiore di Brescia.

 

La chiesa parrocchiale di Albarè. Eretta tra il 1908 ed il 1910, fu dedicata a San Lorenzo come lo erano la chiesetta (ora scomparsa) delle Valdoneghe del X sec., e quella di Gazzoli del XVII sec. Divenne parrocchiale nel 1949. La facciata è a capanna e ripete motivi romanici, mentre l’interno è ad una unica navata con tre altari in marmo Rosso Verona: quello del Sacro Cuore a destra, l’Altar Maggiore con nel coro la statua di S. Lorenzo in una nicchia, e sopra una croce bizantina di A. Marchi del 1952, e a sinistra l’altare della Madonna del Rosario incorniciato da sette affreschi di A. Marchi sulla vita di Maria. Affreschi sulla vita di San Lorenzo sono dipinti nella volta centrale, mentre da notare sono due statue di Sant’Agnese e di S. Luigi Gonzaga, il Battistero ottagonale e la «via Crucis» del 1915. La chiesa possiede un piccolo campanile, eretto da pochi anni.

 

San Fermo e Rustico. Chiesetta romanica rurale, fu costruita nel XII sec. sul versante sud-orientale del Monte Campian, nei pressi di Pertica, in località Sapora. Fino al XIV sec. fu officiata e mantenuta decorosamente, custodita da un eremita; poi fu lentamente abbandonata. È costituita da un edificio rettangolare ad una unica navata, lunga 10 metri e larga 6, con tetto carenato e piccola abside ad Est. La facciata a capanna possiede un cornicione ornato di gocce in cotto, e presenta la porta murata a causa dei continui furti a cui è andata soggetta negli ultimi anni, affiancata da due finestre rettangolari. Alcune pietre con sculture di motivi floreali sono murate nella parete esterna. Un campaniletto a vela senza campana si innalza sul tetto a Nord, mentre un piccolo edificio si affianca a Sud. L’interno è stato letteralmente devastato dalle ruberie e dalla maleducazione: sono stati asportati marmi, parti del pavimento e dell’altare.

 

Di proprietà del comune, non è attualmente visitabile (estate 1996), in quanto cintata da una rete per pericoli di crolli. Il tempietto dovrebbe divenire in futuro un luogo di eremitaggio.

 

Santa Croce. Costruita nel 1726 dai conti Torri, annessa alla loro villa di Albarè, ma aperta al culto per gli abitanti della zona, fu dotata di un campanile con tre campane del 1727 ed un orologio nel 1748. Presenta una facciata a capanna con ampio portale e rosone ovale. La cappella conserva affreschi di Giovanni Tedeschi ed una pala nel coro raffigurante la «Madonna con Bambino e San Giuseppe tra S. Carlo, Santa Caterina, Sant’Antonio, Santa Monica e San Pietro». Sull’unico altare vi sono inoltre due statue settecentesche di San Carlo Borromeo e di San Paolo della Croce. Nella volta del presbiterio vi è il dipinto «trionfo della Croce».

 

All’esterno dell’abside vi sono le tombe degli ultimi Giuliari-Tusini: il generale Pier Camillo Tusini (1959), la contessa Elena Giuliari (1967) e Gualberto Tusini (1926). La chiesetta è stata recentemente restaurata ed è di proprietà dei Salesiani, alla cui vicina comunità occorre rivolgersi per la visita.

 

San Verulo. Antica chiesa di Castion, costruita forse nel XII-XIII sec., divenne parrocchiale nel XV sec. dedicata a S. Verulo, martire ad Adrumeto nel V-VI sec. L’edificio attuale fu costruito su di un preesistente di epoca romanica disposto con l’abside a Sud (inversa rispetto all’attuale), che subì ampliamenti e ristrutturazioni nel XVI sec. e nel 1905. La facciata è a capanna con ingresso attraverso un portale ad arco settecentesco. L’interno è ad una unica navata con altare in marmo policromo, recante una pala del sec. XVII con «San Verulo, la Maddalena e san Floriano sotto la Madonna con Bambino». Un affresco della «Madonna con Bambino» della fine del XIV sec. si trova in una nicchia della parete destra. Davanti alla facciata vi è un campanile quadrangolare in mattoni, con basamento romanico in pietra e con 4 monofore sormontate da merli. Nel sagrato vi è una pietra tombale con croce in rilievo ed iscrizione gotica illeggibile, del XIV sec., nonché un grande masso morenico di porfido, con incavo.

 

San Zeno. In località Bordiono, tra Costermano ed Albarè, all’interno di un boschetto di querce sorge la chiesetta di San Zeno. Del secolo XII, appartenne al Monastero di San Zeno di Verona, fino al 1806 quando venne demaniata, ed è ora proprietà dei Simoncelli. Si presenta con una facciata a capanna con porta ad arco e due finestre ad ovale schiacciato. L’interno è ad una sola navata con altare policromo e con tetto a capriate. Sulla parete sinistra vi è un affresco della prima metà del XVI sec. rappresentante la «Madonna della Corona tra i Santi Bernardino, Antonio, Francesco e Zeno», in stato di degrado così come il tetto e l’intera struttura della chiesetta, che avrebbe bisogno di urgenti interventi di conservazione e ripristino. Sul tetto vi è un campaniletto a vela, mentre una piccola abside è rivolta ad Est.

 

Santuario della Madonna del Soccorso. Sorge tra Virle e Marciaga nel luogo dell’apparizione della Madonna ad un pastorello sordomuto, cui avrebbe donato un pane che lo guarì in modo miracoloso. Tale avvenimento, accaduto ai primi del XVI sec., spinse gli abitanti della zona a costruire una prima cappella in stile romanico, poi ampliata una prima volta alla fine dello stesso secolo e quindi alla fine del secolo successivo. Si presenta con una facciata a capanna, avente portale ad arco tra due finestre oblunghe, sovrastato da un occhio centrale, e con campanile quadrangolare con 4 monofore. L’interno è ad una unica navata con tetto con due cappellette laterali conservanti altari cinquecenteschi: quello di destra è dedicato alla Vergine del Rosario e presenta una pala della fine del XVI sec. raffigurante i Santi Antonio Abate e Nicola da Bari, con inserita una piccola tela della Madonna con Bambino e rosario, di autore ignoto; quello di sinistra, dedicato ai Santi Bartolomeo e Francesco, conserva una pala con i due santi sotto una Madonna con Bambino tra angeli, della scuola del Brusasorci (fine sec. XVI). L’altar maggiore è del 1765, in marmi policromi con baldacchino barocco e conservante una tavoletta in legno dei primi del XVI sec. che raffigura l’apparizione della Vergine al pastorello; davanti alla mensa vi è un paliotto in legno seicentesco, con dipinta l’apparizione della Vergine. Notevole anche il pulpito ligneo a cinque facce decorate, del XVI sec. Le pareti della chiesa sono decorate da un fregio somigliante ad una trabeazione, sostenuto da colonne corinzie, mentre il retro della facciata conserva un cartiglio con allegorie e quattro stemmi gentilizi (Carlotti, Graziani, Rossetti ed ignoto).

 

Altri affreschi sono un S. Antonio abate nella cappella di destra, una Santa Chiara, una Santa Maria Egiziaca, una Santa Lucia ed una Santa Elisabetta d’Ungheria nella cappella di sinistra. Poi vi è un Padreterno sull’arco trionfale e nel coro una Crocifissione, la Deposizione e l’Ascensione, con nella volta un medaglione della Vergine. Tutti questi affreschi sembrano appartenere a Paolo Ligozzi ed essere stati eseguiti tra il 1600 ed il 1630. Restaurato recentemente, il santuario è aperto ed officiato in numerose festività. Per la visita, le sue chiavi sono presso il parroco di Marciaga, oppure presso i custodi che abitano di fianco.

P2 Costermano bn

I capitelli, le croci e le edicole votive

Abbastanza numerose sono le testimonianze nel territorio di Costermano di capitelli, edicole e croci votive, meno di pitture, frutto di una convinta religiosità e pietà contadina, ed espressione semplice, ma significativa di arte popolare. Si tratta di simboli sacri posti in contrade, su crocicchi od in luoghi di passaggio obbligato, in prossimità di fontane, di luoghi storici, di luoghi teatro di particolari avvenimenti felici o dolorosi che intendono ricordare.

 

In alcuni casi sembra esserci una continuità tra il pagano «deus loci», protettore della località in epoca romana ed il simbolo cristiano che lo ha sostituito sempre nel medesimo luogo.Tali simboli sacri sono il frutto di ex-voto o di grazie ricevute (per conclusione di epidemie di peste, di vaiolo od anche di afta epizootica negli animali, per cessazione di guerre, di carestie o di siccità), od anche vogliono ricordare disgrazie accadute in qualche località (morti per incidenti).

 

Per quanto riguarda i capitelli, chiamati localmente anche «staffoletti», sono delle cappellette votive erette dalla popolazione sui crocicchi ed al centro delle contrade. Frutto di una fede e di una tradizione religiosa contadina che voleva immagini della Vergine, di Cristo o di Santi a protezione del luogo, o anche di ex-voto, i capitelli della zona di Costermano sono in gran parte dedicati alla Madonna o a qualche santo «adiutore», protettore dei lavori agricoli. I più antichi risalgono al XVIII sec. e conservano pochi brani di affreschi e pitture, ma soprattutto statuette o piccoli quadri. Ogni contrada ha il suo «capitel» che in passato durante il mese di maggio, se dedicato alla Madonna, era adornato con fiori e luminarie e vi veniva recitato dinanzi il rosario, oppure era al centro della festa del patrono della contrada. Ricordiamo in particolare i capitelli della Madonna del Soccorso a Virle, della Madonna della Corona sul ponte Tesina a Castion, o a località Calcina, od anche a Campagnola; della Madonna con Bambino alla Pertica, ai Gazzoli ed al bivio di Fraimonti, della Madonna del Carmine tra Castion e San Verolo, di Sant’Antonio Abate a Gazzoli.

Purtroppo alcuni di questi capitelli, soprattutto quelli in campagna, stanno cadendo in rovina e avrebbero bisogno di interventi conservativi e di ripristino, cosa che si è cercato di fare per quelli delle contrade. Diverse anche le croci in pietra e le lapidi a ricordo di disgrazie accadute (da quella papale di Marciaga a quella dell’incrocio con la «direttissima» per Caprino, da quella di Campagnola a quella di Gazzoli).

 

Le corti, i muri, i pozzi e le fontane

Le corti sono insediamenti di origine medioevale (sec. XIV-XV), ma sviluppatesi soprattutto dal XVI al XVIII sec., formate solitamente da una casa padronale, fortificata od arricchita con elementi architettonici ed arredi di distinzione (poggioli, mensole modanate nelle finestre, fregi, ecc.), e da case di contadini affittuari con stalle e cantine al pianoterra e le abitazioni (cucina con grande camino e camere) al piano superiore, raggiunte da scale esterne in pietra, mentre al secondo piano vi sono i «granai» dove si depositavano le granaglie ed i cereali. La corte, il cui ingresso è generalmente formato da un arco a tutto sesto in pietra, spesso con stemma in rilievo e millesimo scolpiti in chiave, simbolo della proprietà della corte, possiede un «pòrtego» o «barchessa» di fianco alle case, il pozzo, l’aia («sélese»), normalmente selciata od in terra battuta; frequentemente mostra una torre di difesa (la colombara; molto bella è quella della località Bondi, quella della Pertica o quella di Villa Albarè), negli ultimi secoli ospitante colombi, da cui il nome. Tali edifici, disposti a racchiudere uno spazio rettangolare, erano completati nella perimetrazione difensiva da muri in seregno.

 

La corte era una unità economico-sociale autosufficiente basata sulla coltivazione di un certo fondo agricolo, la cui maggior o minor consistenza ha determinato l’ampiezza e l’arredo architettonico degli edifici. Modificati nel corso dei secoli, gli edifici della corte hanno mantenuto però dei caratteri tipici peculiari, riscontrabili ancora oggi, dopo numerosi interventi di restauro, come a Pertica.

 

Il centro storico di Costermano conserva numerose corti che hanno completato la trama medioevale degli insediamenti sulla collina morenica. Pregevoli esempi di corti sono a Pertica (con archi d’ingresso settecenteschi), a villa Albarè, a Bondi, a Campagnola, a Pizzon ed a San Verolo. I muri delimitano gran parte delle strade del centro storico di Costermano e particolarmente significativi sono quelli che recintano le campagne ed i fondi delle varie ville (notevoli quelli di villa Giuliari ad Albarè, di villa Pellegrini a Castion o di villa Rizzardi a Costermano). Da menzionare sono inoltre i muri che delimitano l’introl Zanelle.

 

Sono costituiti di seregni, sassi calcarei, pietrisco di riempimento e poca calce. Frutto di una lavorazione artigianale che rispondeva all’esigenza di delimitare gli antichi broli e le varie proprietà, i muri hanno assunto un particolare cromatismo dovuto al contrasto tra i colori chiari della pietra calcarea e quelli rossastri e scuri dei seregni morenici che col tempo hanno assunto una patina scura per l’aggressione di muschi e licheni, creando suggestivi scorci.

 

Costermano presenta inoltre numerose testimonianze di architettura popolare legata all’acqua, risorsa da sempre importante per gli usi agricoli e civili. Alcune fontane con vasche e lavatoi in pietra per i panni, sono presenti a Pizzon, tra Castion e San verolo, a Gazzoli. Pozzi venivano scavati un pò in tutte le corti e nelle contrade e ne sono testimonianza quelli di Bondi, Pertica, Cortina e Costermano (villa Becelli).

 

TRADIZIONI POPOLARI NEL CORSO DELL’ANNO DI COSTERMANO SUL GARDA

Costermano, come tutta la zona  tra l’Adige ed il Garda, conserva  ancora nelle persone adulte ed anziane il ricordo di tradizioni, usanze e modi di vita del passato che purtroppo vanno scomparendo sempre più sotto l’incalzare di un veloce modernismo che distrugge irreversibilmente anche quella cultura contadina frutto di generazioni e generazioni di agricoltori, tramandata oralmente di padre in figlio, e composta di tradizioni religiose, di riti ed usanze, di proverbi e detti, ma anche di utensili ed attrezzi artigianali costruiti in proprio, di tecniche agricole colturali e di allevamento, di arte popolare.

 

Una cultura che si identificava con un modo di vivere ricco di valori semplici ma dal profondo significato umano e sociale, che trovavano fondamento nel radicato senso religioso della gente e che purtroppo vanno inesorabilmente scomparendo, come il senso della famiglia, i valori religiosi, il gusto e la gioia delle cose semplici, il senso del sacrificio e dell’impegno e così via.  Le tradizioni popolari di Costermano e dell’entroterra benacense, in gran parte non hanno un’origine storica ben definita e documentabile, ma sono nate con l’uomo e sono quindi il risultato di vari fattori tra cui la storia, l’ambiente particolare, i diversi modi di vita nel corso dei secoli, la mentalità e la cultura contadina, oltre agli influssi esterni.

 

Prendiamo ora in considerazione brevemente, tutte quelle usanze e tradizioni folcloristiche, nonchè i proverbi ed i modi di dire legati ai vari giorni e periodi dell’anno. Ogni avvenimento annuale era infatti segnato da azioni che si dovevano compiere e da cose che invece non si dovevano fare, ed alcune di queste usanze non sono ancora completamente scomparse, restando come testimonianza unica di un modo di vita del passato e di una cultura contadina che non deve venir distrutta.

 

Gennaio

L’anno, per il contadino di Costermano, iniziava alla mezzanotte del 31 dicembre e veniva salutato da colpi di fucile sparati in aria che avevano un significato propiziatorio. La mattina del primo dell’anno si traevano auspici su come sarebbe stata l’annata nuova, dalla prima persona che si incontrava per strada: un uomo portava fortuna; una donna invece, sfortuna, il medico era annunciatore di malattie ed il prete  foriero di lutti. Anche dal gettare gli zoccoli o le scarpe dalla scala si traevano pronostici: se infatti cadevano diritti le cose sarebbero andate bene durante l’anno, se invece si rovesciavano, sarebbero andate male. La sera dell’Epifania, il 6 gennaio, si accendevano i “brujei”, (grossi falò di sterpi e spini), sulle alture e colline attorno al paese ed in ogni contrada.

 

Il “brujel” per i contadini, aveva il significato di illuminare ed indicare la strada alla Sacra Famiglia nella sua fuga in Egitto, mentre le braci del falò dovevano servire alla Madonna per asciugare i pannolini del Bambinello. In realtà queste motivazioni sono state fornite dalla tradizione cattolica, in quanto il “brujel” è un rito la cui origine è pagana e si perde nella notte dei tempi (forse precursori sono alcuni riti egiziani e medio-orientali con significato propiziatorio e purificatorio, che venivano celebrati nella festa orientale dell’Epifania e su cui poi si inserì la chiesa cattolica che da riti pagani profondamente radicati nella popolazione, volle farne riti con uno sfondo cristiano).

 

Nella settimana precedente la festa, tra i giovani delle varie contrade e corti vi era una gara nel raccogliere la maggior quantità di sterpi e spini per far più alta la catasta di legna e per far durare più a lungo il “brujel”. La sera dell’Epifania tutti gli abitanti delle contrade di Albarè, Costermano, Castion e Marciaga si raccoglievano attorno ai fuochi a cantare in allegria, così come tutti i contadini che abitavano case e corti isolate.

 

Tutte le colline moreniche che circondano i paesi  apparivano costellate di innumerevoli falò in uno spettacolo altamente suggestivo; oggi, questa è una usanza ancora in vita e viene ripetuta ogni anno, anche se in forme sempre minori. Vuole ancora la tradizione, che il “brujel” servisse da buon auspicio per la vendemmia di quell’anno. Infatti sollevando le braci con una forca, scaturivano innumerevoli scintille, ognuna delle quali rappresentava un grappolo d’uva.

 

Il l7 gennaio ricorre Sant’Antonio Abate, patrono di Costermano, festeggiato solennemente con una serie di manifestazioni oggi ripristinate. E’ il protettore delle bestie e delle stalle, ed in tale giorno venivano portati gli animali domestici a far benedire nella piazza della chiesa. Inoltre si faceva benedire anche il sale destinato agli animali, che poi veniva loro somministrato come protezione contro le malattie e le epidemie. In tempi più recenti al posto degli animali si usavano benedire le attrezzature agricole come trattori, autocarri ed auto. Racconta un proverbio che: “Sant’Antonio se no el cata el giasso el le fa, se el gh’è, el le desfa” (se a S. Antonio non vi è ghiaccio, lo fa, se invece c’è , lo disfa). Verso la fine di gennaio, il 25, scade S. Paolo; in tale notte considerata divinatoria per la meteorologia, con il sistema degli spicchi di cipolla salati, si conosce l’umidità dell’anno: si fanno dodici spicchi, corrispondenti ai mesi, e a seconda del maggior o minor assorbimento del sale su di ognuno, si prevede se saranno mesi piovosi od asciutti. Un proverbio legato a questa notte dice: “De le calendre no me ne curo, se la nòte de San Paolo non par scuro”, ( non mi curo delle predizioni se è notte chiara, con luna).

 

Febbraio

Il 2 febbraio, era la ”Çerióla”, la Candelora, festa della Purificazione e della Presentazione al Tempio di Gesù, in cui si facevano benedire le candele che poi venivano conservate ed accese solo se qualcuno era gravemente ammalato oppure per scongiurare la grandine all’avvicinarsi dei minacciosi temporali estivi. E a partire da questo giorno, spesso il freddo invernale si attenuava, come afferma il proverbio: “A la Çeriola de l’inverno ghe sémo fóra”. Il giorno dopo, S. Biagio, protettore della gola, chi si faceva benedire la gola con due candele incrociate, restava immune dai mali alla gola per tutto l’anno, ed ancora oggi è questa una tradizione abbastanza osservata come quella della Çeriola. Il 21 febbraio si celebra a San Verolo la festa del patrono. In questo periodo esplodeva il carnevale, e negli ultimi tre giorni, ragazzi e bambini mascherati andavano per le contrade alla questua di cibarie e soldi. Era il tempo in cui si mangiavano, e si mangiano le “sossole”, una sorta di frittelle fatte in casa, mentre l’ultimo venerdì di carnevale si gustano gli gnocchi, piatto tipico obbligatorio del “venerdì gnocolar” veronese. Il primo giorno di Quaresima, Mercoledì delle Ceneri, vi è il rituale religioso della benedizione ed imposizione delle ceneri mentre si prescrive il digiuno e l’astinenza dalle carni (così come per ogni venerdì). Lasciato ormai, “febràr, febraréto, curto e maledéto”, si entra in marzo con “Osar Marzo”.

 

Marzo

“Osar Marzo” è un rito di primavera che serviva a propiziare dopo il sonno invernale della natura ed il rallentamento biologico delle attività, la rinascita primaverile e la fertilità della terra e del genere umano. Inno alla giovinezza, “Osar Marzo” è soprattutto una burla atta a deridere gli scapoli e le zitelle delle varie contrade.

 

La manifestazione si articola in questo modo: la sera dell’ultimo di febbraio, alcuni giovani delle contrade o del paese, armati dei caratteristici “tortòri”, si dispongono a gruppi sulle più alte colline moreniche. Qui un gruppo inizia il rituale ”osando”dentro il “tortòr” la seguente frase: “Stémo par entrar en marzo su sta tèra par maridar ‘na bèla butèla”. Sulla collina di fronte un altro gruppo replica: “Ci èla, ci no èla?”. A questa domanda il primo gruppo risponde: “Tel dirò doman de sera”; quindi fa seguire un elenco di nomi di scapoli e zitelle del paese. La sera del primo marzo con la stessa disposizione dei gruppi come la precedente, un gruppo inizia con: “Sémo entrè in marzo su sta tèra, par maridar ‘na bèla butèla”, l’altro domanda: “Ci èla, ci no èla?”, ed il primo risponde: “L’è la Rosina Puta” o altro soprannome di zitella del paese. Il secondo gruppo chiede allora: “Ci ghe dénti?”. Ed il primo gruppo risponde: “El Checco Fasòl”, o altro soprannome di scapolo, oppure un nome di animale o di un pozzo o fontana. A questo punto, con gran strepito tutti due i gruppi gridano: “Dènghelo, dènghelo, dènghelo”. Nell’abbinamento dei due sposi per burla, si deve scegliere una ragazza giovane con un vecchio scapolo o vedovo, od un ragazzo con una vecchia zitella o vedova. Certamente in passato, quando non circolavano automobili, la voce si spandeva e veniva percepita in tutte le case del paese e delle contrade. I vari gruppi ripetevano il rituale più volte e si passavano la voce formando delle catene che si sentivano a molti chilometri di distanza. Oggi purtroppo questo è impossibile a causa dei rumori del traffico.

 

Aprile

Nel piovoso mese di aprile, “Apríl, apriléto, ogni giorno un gosséto”, iniziava la stagione dei bachi da seta (il 12, festa di San Zeno), mentre scade di solito la domenica delle Palme in cui si portavano in chiesa a benedire le “olièle”, rametti d’olivo che poi venivano conservati e bruciati in uno scaldino sull’aia con funzione protettiva contro la grandine, all’avvicinarsi di minacciosi temporali.

 

Alcuni di questi rametti inoltre venivano intrecciati a forma di crocefisso e posti in capo ai filari di viti per protezione sempre contro la grandine, mentre altri venivano posti nelle stanze e dovevano proteggere dai fulmini, dalle disgrazie e dalle malattie.

 

Un proverbio legato a questa domenica dice: “Se piói su l’olièla, no piói su la brassadèla” (se piove la domenica delle Palme, non piove a Pasqua), oppure il contrario. Durante la Settimana Santa, nelle sere dal mercoledì al venerdì si cantavano in chiesa i “mattutini”, versetti presi dal Canto delle Lamentazioni di Geremia profeta, conclusi dal crepitante suono e fracasso delle “racole” (strumenti costituiti da un perno con ruota dentata che batte sulla linguetta di un telaio cilindrico).

Tradizioni pasquali erano quelle di coprire le immagini e gli specchi con drappi in segno di lutto, di pulire la catena del camino da parte di bambini che la trascinavano sulle strade e mulattiere selciate, di fare le pulizie a fondo della casa e di imbiancare la cucina, di lucidare i recipienti di rame.

Al canto del Gloria della Messa serale del Sabato Santo “i desliga le campane” in segno di festa e di gioia, dopo che erano restate mute dal Giovedì Santo, mentre la gente si bagna gli occhi con acqua in modo da renderli immuni da malattie. A Pasqua era tradizione per le massaie preparare l’agnello, la “brassadèla”, un gustoso dolce fatto a ciambella, e le uova sode che venivano colorate e dipinte facendole bollire nell’acqua in cui si erano sciolte delle terre coloranti. Le uova venivano poi mangiate a Pasquetta sulle colline moreniche o sulle Sengie di Marciaga. A San  Marco, il 25 aprile, iniziava l’allevamento dei bachi. In questo periodo si tenevano le Rogazioni, processioni primaverili per la benedizione di campi e raccolti.

 

Agli incroci ed all’uscita dalle corti, gli abitanti allestivano dei piccoli altari con in fianco dei cesti di uova o altre offerte in natura per la chiesa. La processione si fermava ad ogni altare o capitello ed il sacerdote benediva i campi augurando un consistente raccolto, mentre il sacrestano raccoglieva le offerte. Tale rito si rifà alle processioni delle Robigalia che i romani facevano dentro e fuori le mura di Roma in onore del dio Robigus.

 

Giugno

Giorno di prodigi era considerato il 24 giugno, San Giovanni. Nella sua notte vi era la credenza che chi si rotolava nudo nella rugiada venisse immunizzato per tutto l’anno dai mali contagiosi. Inoltre le donne dovevano immergere nella rugiada tutti gli indumenti di lana per preservarli dalle tarme.

In questo giorno bisognava cogliere la camomilla e la malva perchè conservassero il massimo delle loro qualità medicamentose, così come le noci per fare il nocino. Ancora si credeva che staccando un geranio (canelòn) ed appendendolo sopra la porta d’ingresso, questo restasse vivo per molto tempo.

Altro giorno ricco di prodigi era il 29 giugno, San Pietro.

 

Un’usanza voleva che la sera della vigilia venisse lasciata all’aperto una bottiglia d’acqua con dentro della chiara d’uovo. Il giorno di S. Pietro si vede nella bottiglia la barca del santo con le vele spiegate, ma a patto che durante la notte vi sia stata la luna. Se “San Piero el va en barca” era di buon auspicio per i mesi futuri.

 

Inoltre durante il giorno vi è pericolo di temporali scatenati dalla madre del santo, una vecchia avara e cattiva.

In questo mese, da alcuni decenni è ormai tradizione che a Castion si tengano una serie di manifestazioni che vanno sotto il nome di “Giugno del cacciatore”, con concorsi di poesia, gare e mostre venatorie, concerti ed intrattenimenti vari.

 

Luglio – Agosto – Settembre

Nei mesi di luglio ed agosto i contadini erano impegnati nella mietitura e nella battitura dei cereali, nella fienagione, nell’aratura e nella raccolta della frutta. Alcune festività interrompevano i lavori agricoli, come quella di Sant’Anna il 26 luglio, quella del “Perdon d’Assisi” con i “passaggi di San Francesco” il 2 agosto (festa “dei òmeni o dei béchi” a Caprino), quella dei Santi Fermo e Rustico il 9 agosto, presso la chiesetta dietro il Moscal, e quella di San Lorenzo ad Albarè il 10 agosto. L’ultima domenica d’agosto si svolge poi la tradizionale festa della “quarta d’agosto” a Costermano, istituita per un voto fatto dai fedeli del paese, dopo essere stati risparmiati dalla peste, mentre la prima domenica di settembre si tiene la festa della Madonna del Soccorso a Marciaga.

 

Le sagre erano le feste del paese o delle contrade, in cui si coglieva l’occasione per divertirsi e svagarsi in un tempo e in una società che non lasciava certamente spazio al divertimento. Così dopo la S. Messa e le solenni Funzioni, o dopo la processione, venivano organizzati vari giochi tradizionali come quello della cuccagna, della corsa con i sacchi, delle pignatte, della corsa con i mussi e della corsa con le rane. Vi erano poi banchi per la vendita di dolciumi e di giocattoli. Infine non mancavano la musica ed il ballo popolare in piazza.

 

Ottobre – Novembre

In ottobre vi era la vendemmia che impegnava tutte le famiglie nella raccolta dell’uva, che in parte veniva venduta ed in parte era pigiata con i piedi in grandi tini per ricavare il mosto da porre a vinificare nelle botti in legno. Con il mosto dell’uva bianca le massaie facevano i “sugoli”, dolci con farina. L’11 novembre, giorno di San Martino, coincideva con l’inizio dell’inverno. Era questo il giorno del “far S. Martin”, in cui si traslocava perchè terminavano i contratti d’affitto.

 

Dicembre

L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è ricordata a Marciaga come “Festa dei biscoti” (caldarroste) o del mandorlato. Il mese di dicembre era atteso soprattutto dai bambini per la festa di Santa Lucia che scade il 13.

 

La tradizione vuole che la Santa porti i doni ai piccoli, ma il rituale della consegna dei doni, con la Santa vestita con veli bianchi, e con il castaldo intabarrato che conduce il “musso e careto”, sta ormai scomparendo. Pure la consegna di un piatto di semola all’asinello che porta i doni e di un piatto di minestra ed un bicchiere di vino al castaldo, è un’usanza che sta lentamente morendo.

 

In questo giorno si cantava la nota filastrocca: “Santa Lussia la vien de nóte con le scarpe tute róte, col capèl a la romana, Santa Lussia l’è me màma”, rivelatrice dell’origine effettiva dei doni.

 

Vi era sempre in questo giorno, anche un proverbio collegato all’allungamento del giorno, che dice: “A Santa Lússia, ‘na pónta de úcia, a Nadal en passo de gal, a l’Epifanìa en passo de strìa, a Sant’Antonio en passo del demònio” (A Santa Lucia la luce del giorno cresce della punta di un ago, a Natale del passo di un gallo, all’Epifania, del passo di una strega, a Sant’Antonio, del passo di un demonio). E’ questo un proverbio la cui origine risale al XV-XVI sec. prima della riforma gregoriana del calendario (1582), quando il solstizio d’inverno scadeva 1’11 o 12 dicembre e non l’attuale 21 dicembre. Dopo la riforma, anche se errato, il proverbio è rimasto.

 

Durante il periodo natalizio vi è la tradizione della “Stella” in cui gruppi di giovani e ragazzi andavano di casa in casa recando con sè una stella di cartone illuminata da una candela e fatta in modo che potesse girare, e cantavano canzoni natalizie di questua domandando cibarie e vari doni. A Natale, oltre al presepe ed alla “sòca de Nadal”, un grosso tronco che doveva ardere lentamente sul focolare per tutta la notte, era tradizione un ricco pranzo familiare in cui veniva servito il tacchino e si gustava il tipico dolce “Nadalin” fatto con farina, uova e zucchero, a forma di stella a cinque punte smussate, e cosparso di nocciole ed anche pinoli. I giorni natalizi erano anche occasione per “far su el porsèl” (uccidere il maiale) producendo salami, “pansète” e “codeghini” mentre ogni parte dell’animale aveva un suo utilizzo. Nel periodo invernale si svolgeva poi il “filò”.

 

Non era altro che un raduno serale delle persone che abitavano una corte o contrada, che si incontravano in una stalla per giocare a carte o a mora e per passare un po’ di tempo al caldo, raccontandosi favole e storie. Così mentre gli uomini erano intenti a giocare, le donne sferruzzavano con gli uncinetti e lavoravano a maglia sfruttando il calore animale della stalla, in un’epoca in cui non esisteva il riscaldamento nè la televisione.

 

Questi aspetti della cultura contadina, andrebbero conservati e valorizzati come testimonianza di una civiltà e di un passato che ha ancora molte cose da insegnarci, così come tutta la cultura materiale con i numerosi attrezzi agricoli o gli oggetti e mobili delle abitazioni. Un modo di vita, che nonostante la fatica, era sereno, non alienante, e soprattutto legato indissolubilmente alla terra ed all’ambiente, da cui riceveva il sostentamento strettamente necessario.

 

CENNI GASTRONOMICI DI COSTERMANO SUL GARDA 

La gastronomia tipica di Costermano e della zona dell’entroterra gardesano annovera primi piatti di tagliatelle (in brodo con “fegadini” e asciutte), “minestra e fasòi” e risotti, seguiti da arrosti di cacciagione e bollito misto con la “pearà” e “cren”. Caratteristico è il “risotto e anara col pien” (risotto e anitra arrosto con ripieno) da consumare in autunno a partire dalla sagra della “quarta d’agosto”. In primavera particolarmente gustosi sono gli asparagi, sia cucinati nel risotto, sia con le uova sode. Ottimo è anche il salame locale con l’aglio, servito con polenta fumante od abbrustolita. Altri piatti tradizionali sono la “renga” ed i “bogoni” cucinati in vari modi. Dolci tipici sono la “brassadella” (una sorta di ciambella preparata in occasione della Pasqua), la “fogassa su la gradèla” (una focaccia da cuocere sulla graticola), le “sòssole” (nel periodo di carnevale) ed i “sugoli” confezionati con il mosto d’uva e farina durante la vendemmia. Particolare menzione merita l’olio extravergine d’oliva  della Riviera degli Olivi del Garda a denominazione di origine controllata, prodotto anche nel territorio di Costermano.

 

Un olio che si presenta limpido, di colore che va dal giallo paglierino al verdastro, di sapore ed odore gradevolissimo, non untuoso, molto indicato come condimento in quasi tutti i piatti e crudo sulle verdure (da provare le bruschette con l’olio nuovo).

 

Per quanto riguarda i vini, Costermano rientra nella zona di produzione del Bardolino  DOC.

 

Il Bardolino Rosso DOC si presenta di colore rosso rubino chiaro tendente a volte al cerasuolo, che si trasforma in granato con l’invecchiamento. Ha odore vinoso con leggero profumo delicato; sapore asciutto, sapido, leggermente amarognolo, armonico, sottile, talvolta leggermente frizzante. La sua gradazione minima complessiva è di 10,5 gradi. Il vino Bardolino ha origini storiche molto antiche e nella zona collinare furono coltivati nel medioevo, anche ad opera dei frati, i vitigni che producono questo vino (Corvina nella percentuale dal 35 al 65%, Rondinella dal 10 al 40%, Molinara dal 10 al 20%, Negrara fino al 10%; inoltre per un altro 15% possono entrare nella produzione anche Rossetta, Sangiovese, Barbera e Garganega).

Ma oltre al Bardolino DOC vi è anche il Bardolino Novello DOC prodotto con le stesse uve del Bardolino, dal profumo fragrante, fruttato e tipico di macerato ed il Chiaretto DOC che si ottiene dalla vinificazione in rosa, cioè con minima macerazione delle bucce, delle stesse uve impiegate nella produzione del Bardolino. Alle caratteristiche organolettiche del Bardolino, il Chiaretto accompagna un particolare tocco di finezza, di profumo e gusto. Se il Bardolino Novello è un vino  indicato con i piatti di mezzo, sapidi e decisi (va servito a 14°-16° di temperatura) e se il Bardolino Rosso, piuttosto alcoolico, è adatto con le carni leggere e con gli arrosti di cacciagione(va servito a temperatura di 15°-18°), il Chiaretto è invece indicato con antipasti, minestre, piatti di mezzo e piatti leggeri oltre che come aperitivo (è un vino per qualsiasi ora e va gustato giovane e fresco, a temperatura di 12°-14°). Buono è anche il vino bianco locale (che si ottiene soprattutto da uva trebbiana), il dolce “recioto”, bianco o nero, ed il frizzante chiaretto spumante, prodotto solamente da alcune cantine specializzate con il metodo “champenois”.

(CH. BA. )

 

 

 

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