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Cos’è il Signor Spread e cosa vuole da noi

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Lo spread è “soltanto” un indicatore, che significa divario, distanza. Come tale è del tutto convenzionale e neutro: per convenzione, lo spread che ci interessa di più è quello tra il rendimento dei Buoni del tesoro italiani (Btp) e quelli tedeschi. Questo perché i buoni tedeschi sono quelli considerati la forma di investimento più stabile e sicura. Quando i governi propongono ai mercati i loro buoni, con delle vere e proprie aste, gli investitori li acquistano in funzione del rendimento che offrono: più un certo investimento viene considerato rischioso, più il loro rendimento deve salire per essere scelto (più rischio, più remunerazione).

Per capirsi meglio: nella grande crisi del 2011, che portò alle dimissioni del governo Berlusconi e all’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti, con le politiche di austerità finanziaria che ne seguirono, lo spread italo-tedesco era salito in pochi mesi in maniera vertiginosa: sopra i 100 punti a luglio, sopra i 200 ad agosto, fino al record di 574 a novembre.

E’ solo un indicatore, abbiamo detto: tecnicamente, indicava che stava aumentando sempre di più il rendimento dei Btp, cioè quanto il Tesoro italiano doveva garantire agli investitori per convincerli a prendersi i propri buoni. Indica con un semplice numero qualcosa di molto complesso e profondo: la credibilità del Paese, la sua affidabilità, la stima che riceve nel particolare mondo della finanza globale.

Non è solo (e già è grave) dover remunerare di più chi investa sull’Italia; è che la spirale tra un aumento progressivo del rischio percepito e del rendimento conduce al fallimento. Non solo la remunerazione degli investitori diventa a ogni passaggio più onerosa, ma a un certo punto potrebbe essere difficile avere il denaro per saldarli, a meno di non emettere nuovi buoni a rendimenti ancora più alti: è la trappola del debitore, che può finire molto male. Basterebbe un’asta fallita, per sfiducia verso la capacità italiana di far fronte agli impegni, per segnare il temuto default: la bancarotta. Qualcosa che abbiamo visto avvenire in Grecia, con i buoni greci che nel 2011 arrivarono a un rendimento del 20% (spread con quelli tedeschi: 1818 punti). A questi livelli, investire su titoli greci era diventato sì molto remunerativo, ma anche una specie di lotteria: quando si sarebbe raggiunto il punto di non ritorno, in cui Atene avrebbe dovuto alzare bandiera bianca e dire, come qualsiasi debitore fallito: ok, signori, abbiamo scherzato, i nostri buoni non possiamo più remunerarli, se volete potete venire a prendervi i mobili, non c’è rimasto altro?

Si era all’incirca raggiunto, infatti, e soltanto l’intervento del cosiddetto “fondo salva-stati”, il Fesf, fondo europeo di stabilità finanziaria, ha salvato la Grecia, con un’urgente dotazione di denaro fresco. Bene, quindi, l’Unione europea ha salvato la Grecia, Paese membro: ma è stato un salvataggio con un prezzo comunque da pagare. Proprio come se voi salvaste un vostro parente in dissesto finanziario, prestandogli dei soldi in extremis, ma poi pretendeste che lui cambi vita, abitudini, venda la casa troppo lussuosa, la macchina nuova, così la “troika”, cioè Commissione europea e Banca centrale europea, con l’aiuto del Fondo monetario internazionale, hanno imposto complesse e onerose condizioni al bilancio greco, che hanno poi impattato clamorosamente sulla vita quotidiana dei cittadini greci, con vere e proprie sofferenze sociali (tagli di stipendi e di servizi sociali).

Questa descrizione, quanto più possibile obbiettiva, del funzionamento di una crisi finanziaria, e dei meccanismi europei per aiutare i Paesi membri dell’Unione europea, evita volontariamente di entrare nel dibattito politico, che è stato, ed è tuttora, al calor bianco, con posizioni estreme e contrapposte, che non hanno messo in campo soltanto diverse ideologie, ma anche fatto emergere differenze culturali e psicologiche ancora molto radicate tra i diversi popoli europei.

A un estremo, le opinioni pubbliche di alcuni Paesi nordeuropei hanno provato poca simpatia per i greci: i soliti mediterranei, poca voglia di lavorare, e via coi pregiudizi; all’altro estremo, con un eccesso di vittimismo, si è dipinta la “troika” come un comitato di feroci strozzini, che hanno fatto pagare con il sangue al popolo greco l’aiuto finanziario offerto. La verità, probabilmente, sta nel mezzo: l’aiuto europeo è stato necessario, e comprova l’importanza dell’Unione; i governi greci, specialmente il governo Karamanlis (2004-09) hanno commesso gravi errori, anzi veramente Karamanlis aveva taroccato proprio i bilanci pubblici, e questo evidentemente non ha aiutato, come minimo; d’altra parte l’aiuto europeo è arrivato molto tardi, se Bruxelles (rallentata da certi governi nordeuropei che fino all’ultimo hanno espresso dubbi e resistenze) fosse intervenuta prima, le cose non sarebbero degenerate fino a quel punto, e i costi sarebbero stati minori per tutti.

Un altro elemento, molto spinoso (e qui torniamo anche all’Italia): ma, alla fine, cosa determina la fiducia degli investitori, e quindi la loro volontà a comprare più o meno volentieri i buoni greci, o italiani, o tedeschi? E’ oggettivo, insomma, lo spread, è una misurazione inesorabile come la febbre del termometro, oppure è legata a impressioni, opinioni, giochi politici e finanziari, vere e proprie speculazioni?

Ebbene, definire la stabilità e la solvibilità di un Paese non è affatto una scienza esatta: conta molto (vale anche nella vita di tutti noi, se avete fama di persona seria vi faranno un prestito più volentieri) la “reputazione” di un Paese. Naturalmente, gli investitori vorrebbero avere più sicurezze, e per questo esistono, ad esempio, le agenzie di rating, che studiano, calcolano, e alla fine danno ai Paesi dei veri e propri voti (per capirci, si tratta di voti espressi in lettere, all’americana: la Germania ha tre A (AAA), noi siamo a tre B (BBB o anche BBB-, verso due soltanto), con qualche variazione tra un’agenzia e l’altra.

Anche la questione delle agenzie di rating non è pacifica: si tratta di agenzie private, tant’è che la Cina ne ha promosso una tutta sua, la Dagong, così, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Siccome le principali agenzie sono americane, sono in molti a sostenere che pure l’Europa dovrebbe farne una sua, magari a proprietà pubblica, che farsi dare i voti da qualche ragazzotto, che sarà magari laureato ad Harvard, ma insomma non è una gran cosa per i popoli europei.

Lo spread tra Italia e Germania, dopo i giorni difficili del 2011, è sceso sotto ai 100 punti nel 2015; nel 2016 è tornato a risalire, per ragioni politiche: hanno pesato, sulla fiducia all’Italia, le difficoltà politiche del governo Renzi e le crisi delle banche, ma ancora sotto i 200 punti; è salito sopra i 300 con la formazione del nuovo governo, quando si parlava di un probabile ministro che voleva far uscire l’Italia dall’euro, e poi ha viaggiato a lungo a quota 250. In pratica, per quanto descritto sopra, remunerare gli investitori sui Btp è diventato più costoso.

A questo punto, riparte la discussione politica: abbiamo un governo poco autorevole, di dilettanti allo sbaraglio, e i mercati non si fidano? Oppure certi poteri finanziari che agiscono nell’ombra vogliono ostacolare un governo che ha promesso grandi cambiamenti, manipolando spread e investimenti? O ancora, non sarà meglio concentrarsi sui “fondamentali” dell’economia italiana, e ammettere che produttività e occupazione non vanno mica tanto bene? Il ministro Tria ha, a modo suo, tagliato corto con questa discussione: ha osservato che lo spread ci costa “tre miliardi in più” all’anno, se continua così, e quindi sarà bene occuparsene seriamente, prima di andare a chiedere di aumentare il deficit di bilancio, magari per gli stessi tre miliardi che stiamo già perdendo.

Luca Cefisi

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