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Tasse: quanto diamo, quanto abbiamo in cambio

In Italia si pagano troppe tasse ? L’informazione urlata su Internet propone spesso questo assunto. Che naturalmente viene incontro al malessere dei contribuenti e delle imprese, che avvertono senza dubbio  un forte carico fiscale nel corso della loro attività annuale.  Il mugugno sulle tasse è vecchio come il mondo, come anche i tentativi di non pagarle. Esiste una relazione tra evasione fiscale e carico fiscale ? A prima vista sì, visto che tutti conosciamo almeno un evasore che ti spiega sottovoce di essere costretto, e che lui non evaderebbe se lo Stato chiedesse di meno. Ma come stabilire se il carico fiscale è eccessivo ? Non è così facile, e ci vuole una riflessione seria: non basta raccogliere i dati, ma occorre anche interpretarli. E la denuncia dell’imprenditore è una spia, ma va verificata: potrebbe essere il suo business ad essere economicamente insostenibile, e l’evasione soltanto una forma di concorrenza sleale. E naturalmente l’interpretazione non può fare a meno del punto di vista: c’è quello che, semplificando al massimo, potremmo definire liberale, di chi sostiene che l’alleggerimento delle tasse libera risorse per gli investimenti privati, sostenendo il Pil e l’economia, tanto che alla fine il gettito fiscale addirittura potrebbe aumentare perché i tagli alle tasse potrebbero generare maggiore ricchezza privata, e magari addirittura che la ricchezza dei ricchi tende naturalmente a “sgocciolare” verso il basso. E’ questa la teoria trickle-down, di cui oggi è un sostenitore, ad esempio, Donald Trump, teoria che un interessato Alberto Sordi, povero socialista in procinto di sposarsi con una ragazza brutta ma ricca, nel mitico film L’arte di arrangiarsi di Luigi Zampa, riassumeva con il memorabile “quando i ricchi stanno bene, anche ai poveri non va male”. Dall’altro lato, c’è chi invece, potremmo chiamarli i sostenitori dell’economia “sociale”,  ritiene che una robusta leva fiscale sia necessaria per redistribuire una ricchezza che altrimenti rimarrebbe nelle mani dei ceti più ricchi, ma non per essere impiegata a fini imprenditoriali, ma nella mera speculazione, o accumulata senza essere investita, o destinata a spese di lusso che non stimolano adeguatamente l’economia. Per questo secondo punto di vista, le tasse producono ricchezza privata, e lo Stato non ha solo il compito di fare il “guardiano notturno” della proprietà privata, ma anche di organizzare, con leggi e con tasse, il mercato, che lasciato a sé stesso non è affatto razionale e produce sprechi e ingiustizie. Dobbiamo inoltre chiederci: che la pressione fiscale in Italia sia “alta” è un fatto intuitivo, ma “quanto” alta, e rispetto a quali metri di paragone ? E, soprattutto, quali costi e quali benefici complessivi comporta il nostro sistema di tassazione, insomma, come si può valutare il carico fiscale senza parlare anche della relativa spesa pubblica ? Ecco, una volta fatta un po’ più di luce sulla questione, che è più complessa di un discorso al bar o di un “vergogna!” su Facebook, veniamo finalmente ai numeri. Tra i Paesi dell’Ocse (l’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Italia si trova senz’altro nel gruppo di testa, delle nazioni sviluppate ad alta tassazione. Nel 2015 era sesta, al pari della Svezia e dietro a Danimarca, Belgio, Francia, Finlandia e Austria, per impatto della tassazione sul Pil (Prodotto interno lordo): 43,3% (in leggera discesa, in questi mesi dovremmo essere scesi appena sotto il 43%), mentre la Francia è al 45,5% e la Danimarca al 46,6%. L’Italia non è messa diversamente dalla Francia, che è un Paese per tanti versi a noi simile, e al Belgio; gli altri membri di questo gruppo di testa sono però soprattutto scandinavi, con una cultura e una società invece piuttosto diversa dalla nostra. Inoltre, i paesi scandinavi hanno fama di migliori e più ampi servizi pubblici, insomma il contribuente riceve di più per quello che paga, anche se alcuni servizi pubblici italiani sono considerati validi a livello internazionale (sopra tutti, il Servizio sanitario nazionale, che risulta superiore a quello nordeuropeo e in concorrenza proprio con quello francese secondo l’Oms, e anche secondo Bloomberg, che però, paradossalmente, lo valuta positivamente anche perché la sanità italiana farebbe tanto con poco, visto che l’Italia non spende poi  tanto per la salute in rapporto al Pil !). Un confronto inevitabile è quello con la Germania: la Germania ha una pressione fiscale sul Pil significativamente diversa, il 36,9%, pur avendo senza dubbio un sistema pubblico di servizi efficiente. Non è per caso, quindi, che il dibattito politico proprio in Italia e in Francia sia centrato da alcuni anni sulla riduzione del carico fiscale: è la concorrenza con la potente economia tedesca nell’ambito del mercato unico europeo a rendere il tema urgente. Questo si vede anche meglio valutando la tassazione sulle imprese: anche qui l’Italia e la Francia sono in testa, anzi per l’aliquota fiscale totale (il calcolo delle imposte e contributi obbligatori, dopo le deduzioni ma esclusi i sostituti d’imposta) l’Italia è davvero prima, con il 64% e la Francia al 62,8 (Germania: 48,8); la differenza sull’aliquota legale è meno drammatica, Francia, Germania e Italia sono tutte e tre vicine al 30% (Francia di più, Germania, come sempre, di meno), e l’Italia dovrebbe alleggerire con la nuova Ires, scesa dal 27,5% al 24. Attenzione, questi numeri sono comunque soltanto indicativi: il gioco delle deduzioni fiscali, degli ammortamenti e dei molti altri fattori è comunque molto più complesso. Si possono citare, per confronto, quei paesi che sono nel mercato unico, e giocano però duro sulla concorrenza fiscale, l’esempio classico è l’Irlanda, con la sua aliquota standard sulle imprese al 12,5%, che è stata importante nel portare in Irlanda grandi aziende multinazionali da tutto il mondo, anche se alla lunga questa situazione non poteva non aprire un conflitto con Bruxelles, che ha accusato l’Irlanda di aiuti di stato alle imprese. Un contenzioso che non si risolverà finché nel mercato unico europeo non ci sarà anche una politica fiscale unica, il che però vuol dire fisco e Tesoro europeo: siamo ancora lontani ! Per avere un colpo d’occhio complessivo, che dai numeri risalga a una prospettiva generale, si può cominciare da studi come quello di Innocenzo Cipolletta, dall’impopolare titolo “In Italia paghiamo troppe tasse ? Falso !” (Laterza, 2014). Cipolletta, che è stato anche direttore generale di Confindustria, sostiene sostanzialmente tre cose: che una parte del carico fiscale che percepiamo è in realtà carico contributivo, cioè denaro che ci torna indietro, in pensioni in primo luogo; che la spesa pubblica non è eccessiva, al netto degli interessi sul debito pubblico (la nostra vera al palla al piede): infatti, tolti gli interessi passivi, la spesa pubblica italiana è nella media, anzi tutt’altro che spinta, di un punto sotto la media dell’Eurozona (45,2% del Pil, quando i nostri partner spendono in media il 46,8%), e la spesa per i tanto demonizzati impiegati pubblici è del tutto in media (10,6% contro 10,5%). Cipolletta denuncia poi l’ampia evasione fiscale, e quindi l’inefficienza dello Stato nel riscuotere le tasse, un’inefficienza che è la prima spia evidente di un cattivo uso delle risorse pubbliche: del resto, non propone il “pagare meno, pagare tutti”, ma la maggiore efficienza nella riscossione dovrebbe aumentare le risorse a disposizione, mentre la spesa pubblica se mai dovrebbe essere resa più efficiente, per avere finalmente un sistema “scandinavo” dove le tasse siano (relativamente) ben sopportate perché i contribuenti-cittadini ne vedono i benefici. A Cipolletta, che ha suscitato anche reazioni irose, ha risposto in toni invece pacati l’economista Pietro Reichlin: che ha osservato che, se è pur vero che gli italiani, al di là delle lamentele diffuse, ricevono buoni livelli di sanità e scuola pubblica, pure il confronto con il gruppo dei Paesi europei che hanno un carico fiscale di alcuni punti inferiore (Germania, come si diceva sopra, ma anche Spagna) ci dice che si possono tra ottimi servizi e pressione fiscale non c’è una corrispondenza così precisa. Inoltre, secondo Reichlin il debito pubblico non è dovuto alle poche entrate, ma a livelli di spesa che sono stati irrealistici rispetto alla ricchezza generale del Paese: l’Italia è scesa in competizione sulla spesa con Paesi più ricchi (come la Francia), senza poterselo permettere. A questo punto, la scelta però è davvero politica: l’Austria, che ha un livello di tassazione anche superiore al nostro (43,5%) prevede, per esempio, che l’istruzione universitaria sia praticamente gratuita, mentre da noi è prevalso negli ultimi il principio della compartecipazione, con tasse universitarie relativamente elevate e crescenti per reddito. In conclusione, è difficile dare un giudizio oggettivo senza tener fuori opinioni e valori necessariamente differenti: ma la Germania, con il suo minor carico fiscale e i suoi ottimi risultati, ci mette sicuramente in imbarazzo.

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