La vicenda dell’outlet di Serravalle Scrivia, in Piemonte, aperto persino a Pasqua tra le proteste dei lavoratori e dei sindacati, ha riacceso i riflettori su un dibattito infiammatosi soprattutto con l’affermazione dei centri commerciali, emblema della nuova frontiera dell’economia di mercato e di una flessibilità sempre più spinta: è giusto lavorare anche di domenica?
La legge lascia maglie abbastanza larghe alla contrattazione sindacale, in particolare ai contratti di secondo livello (quelli territoriali) e a quelli aziendali in quanto quelli collettivi nazionali in genere includono la sola disciplina-quadro. In sostanza la normativa nazionale stabilisce inderogabilmente il riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni sette giorni, da sommare alle ore di riposo giornaliero per un totale effettivo di 35 ore, ma non esiste un obbligo così rigido perché la pausa coincida con la domenica. Anzi, le forti difformità normative tra settore e settore, nonché l’oggettiva “malleabilità” delle varianti che assicurano il lavoro domenicale (dall’attività di pubblica utilità alle “esigenze tecniche e organizzative”, dal preavviso al consenso tacito del lavoratore), determinano differenze sempre più flebili tra feriale e festivo in molti settori lavorativi.
La liberalizzazione degli orari nel commercio, introdotta dal governo Monti nel 2012 come risposta alla crisi, ha finito per aumentare ulteriormente i giorni di apertura, apportando però pochi benefici sia in termini di fatturato sia sul fronte occupazionale.
La questione non è quindi marginale per il mondo del lavoro. Anche perché è rilevante il numero di quanti lavorano di domenica: secondo i dati diffusi di recente dalla Cgia di Mestre, nei festivi sarebbero al lavoro ben 4,7 milioni gli italiani, di cui oltre due terzi dipendenti e gli altri autonomi (artigiani, commercianti, esercenti, ambulanti, agricoltori). Il settore degli alberghi e dei ristoranti viene indicato come quello dalla presenza più elevata. A seguire il commercio. Poi la pubblica amministrazione, la sanità, i trasporti. Con un trend degli occupati di domenica in costante crescita.
Al di là delle questioni normative o dell’analisi dei dati complessivi di vendita con l’apporto delle aperture festive (la maggioranza delle fonti li giudica inconsistenti), restano sul tappeto sostanzialmente due questioni: una riguarda gli esiti infausti sull’armonia familiare denunciata soprattutto da commesse che si ritrovano a casa nei giorni feriali, con figli a scuola e mariti al lavoro; l’altra è evidenziata dai piccoli negozi del tessuto urbano che soffrono la concorrenza schiacciante dei centri commerciali.
Sul primo punto le voci di dissenso più forti sono venute dai vescovi italiani, che hanno promosso una campagna nazionale per “liberare la domenica”. Con risultati, però, inconsistenti. Sul banco degli imputati vengono collocati soprattutto i “falsi valori di felicità” del consumismo che “rendono schiavo l’uomo” rispetto al suo innato libero arbitrio.
Il secondo aspetto è sotto i riflettori da diversi decenni: causa anche la concorrenza dei centri commerciali, il tessuto economico di molti centri storici delle nostre città vive una crisi dalle drammatiche conseguenze. La desertificazione di molte strade le porta automaticamente al degrado.
Alcuni accordi sindacali degli ultimi tempi hanno imboccato la strada della proficua mediazione tra le due posizioni contrapposte, ad esempio attraverso programmazioni trimestrali del lavoro domenicale su base volontaria, fasce di miglioramenti nel trattamento economico, possibilità di incrementare l’orario di lavoro con le domeniche da parte di lavoratori in part-time ed esclusione dalla programmazione del lavoro domenicale di genitori di bambini con età inferiore a tre anni o di lavoratori che assistono portatori di handicap o affetti da patologia grave e continuativa. E’ questa, certamente, una strada fruttifera.
Va infine ricordato che un disegno di legge che regolamenta le aperture festive, approvato alla Camera nel 2014, è ancora fermo al Senato. La proposta prevede per tutti gli esercizi commerciali sei giornate di chiusura obbligatoria scelte tra 1 e 6 gennaio, Pasqua, 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1 novembre, 8 e 25 dicembre.
(Domenico Mamone)