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Le aziende italiane nel mercato globale

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La fusione tra Luxottica (il leader italiano degli occhiali) ed Essilor (il re francese delle lenti) è logica, sono aziende complementari. Nelle fusioni aziendali, di solito, c’è sempre uno che mangia l’altro, anche se non si dice o non si ammette. In questo caso, non è del tutto chiaro, perché il numero uno sarà l’italiano Del Vecchio, ma il numero due ed erede presunto (Del Vecchio è carismatico ma molto anziano) sarà il francese Sagnières. Soprattutto, la nuova azienda sarà quotata a Parigi, abbandonando la borsa di Milano, e quindi, almeno dal punto di vista legale, sarà “francese”, con la sede in Francia. Ce n’è abbastanza per riaprire la discussione sulla capacità delle grandi aziende italiane di reggere nel mercato globale mantenendo il loro carattere nazionale. Luxottica era sinora un esempio, avendo acquisito negli anni e messo sotto la sua egida marchi stranieri di chiara fama, a cominciare dall’americana Ray Ban. Insomma, l’economia italiana è terra di conquista ? In un certo senso, la domanda è mal posta: è evidente che, con la globalizzazione dell’economia, è finito il tempo in cui il consumatore italiano poteva trovare sempre una marca italiana per ogni prodotto; nell’oceano della globalizzazione, è fisiologico che alcune parti del sistema produttivo italiano vengano assorbite da strutture estere più grandi. L’Italia, si potrebbe osservare, con i suoi 69 milioni di abitanti su 7 miliardi di popolazione globale, è la 23sima nazione del mondo, è troppo piccola. Naturalmente, anche se questo può essere logico, non è sempre un bene: per motivi evidenti di mantenimento dei posti di lavoro o anche per questioni di prelievo fiscale, è bene avere in Italia tante grandi aziende vincenti. E anche per motivi più sottili: per quanto il mondo sia sempre più “globalizzato”, avere manager e dirigenti che parlano italiano, e quindi, si presume almeno, pensano in un certo modo, amano certe cose, ha comunque una ricaduta indiretta sulla vita nazionale, sull’influenza italiana nel mondo, su spazi e opportunità del “sistema-Italia”.  443In effetti, l’economia italiana è pur sempre la decima o undicesima del mondo, ce la battiamo con Paesi molto più grandi come Indonesia o Messico, insomma noi italiani saremo piccoli ma siamo abituati a giocare coi giganti, compensiamo la quantità con la qualità. Quindi avvertiamo come uno smacco quando un’azienda italiana viene “globalizzata”, e questo non è un errore, se è il segno di un’Italia che vuole continuare a pensare in grande ed essere competitiva. Siccome siamo italiani, ci secca particolarmente quando sono i nostri marchi alimentari ad essere rilevati: Parmalat, Galbani, Invernizzi e Locatelli sono oggi nelle mani della francese Lactalis, ed è un bel pezzo dell’orgoglio gastronomico lombardo ed emiliano, oltre che della memoria storica del boom, quando questi marchi furono i pionieri della nuova distribuzione alimentare moderna, entrando nelle case degli italiani con le pubblicità di Carosello. La svizzera Nestlè possiede l’acqua minerale San Pellegrino, che è l’acqua italiana più famosa all’estero, e quindi è di particolare interesse per una supermultinazionale del cibo. Nonostante la passione italiana per i cellulari, che da noi si sono diffusi prima e più che altrove, nessuna compagnia telefonica italiana è più di proprietà nazionale, Telecom è dei francesi di Vivendi, Omnitel è diventata una sezione di Vodafone da tanto tempo, Wind è dei russi (del resto, non siamo riusciti a produrre un telefono cellulare nazionale, così come negli anni 80, quando esplose il mercato televisivo italiano, rinunciammo a produrre televisori). Eppure, ci sono anche, comunque, le aziende italiane che giocano da vincenti sul piano internazionale: si potrebbe cominciare con la veronese Bauli, quella dei pandori, che ha ripreso da Nestlè due marchi storici come Motta e Alemagna (il pandoro ha “salvato” il panettone). Ma ci sono anche esempi meno celebri, eppure significativi: è il caos di Amplifon, la casa italiana di apparecchi acustici, che è diventata un soggetto globale, acquisendo concorrenti israeliani e brasiliani; e nel settore dell’alimentazione brilla sempre l’astro di Ferrero, che ha comprato cioccolate inglesi e biscotti belgi, e c’è una voce ricorrente va e viene: quella di una possibile scalata alla svizzera Lindt, cattedrale del cioccolato svizzero. Insomma, gli italiani sono piccoli, ma ancora, come nel calcio, possono battere chiunque. Si tratta quindi di coltivare  promuovere la competitività italiana: ammettendo anche che non sempre  “piccolo è bello”. La legione di piccole aziende italiane deve imparare a crescere, magari associandosi, per rimanere competitiva.

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