Le “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro”, che il marketing politico ha ribatezzato il “jobs Act degli autonomi” è finalmente legge, dopo essere rimaste in Parlamento per oltre un anno (e, per qualche motivo, ha tardato anche la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale). In effetti, la riforma esce in sordina, coperta dal clamore sulla legge elettorale.
Nella sua formulazione definitiva, essa sembra completare il Jobs Act, dando un’unica cornice normativa ai lavoratori autonomi, che siano a partita Iva o meno, iscritti a ordini professionali o meno. E’ significativo il riferimento esplicito all’articolo 2222 del Codice Civile, che per i meno esperti potrebbe non essere del tutto chiaro: si intendono qui i collaboratori occasionali o continuativi e in vario modo riconducibili al concetto di “parasubordinazione”, che non sono stati aboliti dal Jobs Act (che ha, più precisamente, abolito il contratto “a progetto”, ma non altre possibilità, comunque riconducibili al succitato articolo 2222).
Rimane invece netta la distinzione con la figura dell’imprenditore, anche piccolo. Tutta la riforma è infatti mirata a offrire un quadro di garanzie in qualche modo avvicinabili a quelle del lavoro dipendente, per lavoratori autonomi sì, ma che non si vogliono considerare né sottoposti a rischio di impresa né immeritevoli di forme di protezione e di diritti, oltre la retribuzione.
Questo quadro, che poi dovrà ancora essere meglio definito da futuri provvedimenti attuativi, va a coprire, per esempio, i collaboratori degli studi professionali (architetti o avvocati, di solito giovani, che in questi anni sono sempre più visti come collaboratori subordinati), lavoratori a “partita Iva” che esercitano però prestazioni presso aziende con caratteristiche di fatto ibride, e tutti gli altri collaboratori.
L’articolo 2 introduce una tutela nei ritardi di pagamento, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione.
L’articolo 3 inserisce alcune tutele, che appaiono eque, sull’abuso del lavoro autonomo: in particolare i contratti in forma scritta, e i limiti alla dilazione dei pagamenti.
L’articolo 4 rimanda, per la tutela della creatività e delle invenzioni del collaboratore, alle norme sul diritto d’autore e i diritti d’invenzione e brevetto già nel nostro ordinamento.
Gli articoli 5 e 6 prevedono appunto le deleghe al Governo per riorganizzare aspetti dell’organizzazione del lavoro degli Ordini professionali, e migliore copertura previdenziale sulla Gestione Separata dell’Inps.
L’articolo 7 ripropone la Dis-coll, cioè l’indennità di disoccupazione per i collaboratori che si trovino “scoperti”, e che nel corso delle riforme del Jobs Act si era un po’ persa per strada.
L’articolo 9 amplia le possibilità di deduzione fiscale per le spese di formazione, uno strumento utile.
L’articolo 10 prevede un’estensione dei compiti dei centri per l’impiego pubblici o privati: bene, ma questo ripropone la necessità di aumentare la spesa per i servizi delle politiche attive del lavoro, oggi, nel nostro Paese, assai carenti e sottodimensionati rispetto ai bisogni.
Anche l’articolo 11 prevede deleghe al Governo, questa volta nella direzione della sicurezza sul lavoro tagliata su misura per gli studi professionali.
L’articolo 12 aggiunge che i lavoratori autonomi abbiano accesso ai bandi europei, in questo caso non separandoli, in parte qui avvicinandoli alle piccole imprese.
Gli articoli 13 e 14 introducono indennità di malattia e di maternità sinora inedite nel mondo del lavoro autonomo.
Si riconferma poi la seconda parte del provvedimento, che passa dalle tutele alla codificazione e promozione dello smartwork, che d’ora in poi entra nella normativa italiana come “lavoro agile”. Si può qui anche confermare un’osservazione critica: questo non è certo un campo esclusivo del lavoro autonomo ! E infatti si parla di modalità di lavoro, più o meno “nuove” e “moderne”, e infatti si fa riferimento anche ai Contratti collettivi, nel tentativo di fissare una soglia di garanzie che non trasformino il lavoro a distanza o a casa in un lavoro meno tutelato. C’è qui anche sicuramente un tentativo di rinvigorire le direttive europee sui tempi di vita e di lavoro, la cosiddetta “conciliazione”, che in Italia stenta a decollare.