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Ius soli o Ius sanguinis? L’accesso alla cittadinanza in Italia ed in Europa*

L’Italia si trova ora a dover affrontare la sfida della riforma dell’accesso alla cittadinanza. La legge in vigore è la 91 del 1992, la quale contiene e disciplina le diverse modalità per acquisire lo status di cittadino italiano. Una legge che va analizzata in entrambi i suoi aspetti: i discendenti degli italiani all’estero e l’immigrazione in costante crescita. Per il primo aspetto, basta considerare che ancora oggi sono tantissime le richieste di cittadinanza italiana nel mondo, 300mila solo in America Latina, di queste circa 116mila solo in Brasile. Ma c’è un dato ancora più eclatante che ci fa ben capire l’importanza e la portata di questa legge quando si va a disciplinare la situazione delle persone di origine italiana che nascono e crescono all’estero. Per parola del viceministro degli Esteri Mario Giro infatti: «La nostra legge è così ampia e tollerante – spiega – che il numero complessivo delle persone che, potenzialmente, avrebbero diritto a vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana è di 80 milioni. Più degli abitanti odierni della Penisola». Naturalmente, continua Giro, i motivi per intraprendere questo percorso non sono soltanto affettivi, «ma soprattutto il tentativo di garantirsi un passaporto europeo in un momento di difficoltà economiche e tensioni politiche e sociali».

Il precedente più significativo risale alla crisi economica argentina del 2001, quando gli italiani in fuga dal paese latino americano furono così tanti che fu creata una tendopoli di fronte alla sede di rappresentanza diplomatica italiana. Ora si scappa dal Venezuela, dove i residenti italiani e italo-discendenti sono circa 152.405. Solo a Maracaibo dal 2011 dei 29680 iscritti all’Anagrafe degli italiani all’estero sono tornati in Italia 3.326 persone, mentre sono 4539 su 122725 iscritti i connazionali che hanno lasciato la circoscrizione di Caracas per diverse destinazioni, come ha riportato un’inchiesta della Stampa. Se da un lato la legge appare molto generosa, dall’altro, ovvero in tema di immigrati in Italia, pare invece aver fatto un passo indietro proprio nel momento in cui il fenomeno migratorio diventava importante. Secondo Giovanna Zincone infatti, una delle massime esperte in tema d’immigrazione, nel Primo Rapporto sull’Integrazione del 1999. “In Italia – scriveva allora l’esperta – con la legge del 1992 siamo andati controcorrenteLa nuova legge sulla cittadinanza ha aumentato da 5 a 10 gli anni di residenza richiesti per poter fare domanda di naturalizzazione – la cui accettazione rimane tuttora legata a criteri di discrezionalità”. Una legge che sembrava non tener conto dei nuovi flussi migratori che stavano trasformando l’Italia, da paese di emigrazione a polo di attrazione. Forse serviva offrire una sorta di risarcimento ai discendenti degli italiani all’estero, a lungo considerati, a torto o a ragione, abbandonati dall’Italia, e quindi attutire l’impatto psicologico dell’arrivo degli immigrati su una società italiana impreparata. Di lì a pochi anni l’Italia cambiò volto e la presenza straniera passò da poco più di 200mila lavoratori stranieri regolari nel 1990 a cinque milioni di stranieri residenti nel 2016.

Infatti, l’ultima legge sulla cittadinanza del 1992, stabilisce che questa passa di genitore in figlio. Ovvero, secondo lo ius sanguinis, diventa cittadino italiano un bambino che nasce da una coppia in cui uno dei due genitori è italiano. In caso di genitori entrambi stranieri, si può avanzare la richiesta di cittadinanza, ma se si dimostra di aver risieduto legalmente ed interrottamente nel nostro paese per il tempo stabilito, piuttosto lungo. La cittadinanza italiana si acquisisce anche tramite matrimonio con un cittadino italiano, e al compimento della maggiore età per gli stranieri nati e ininterrottamente residenti in Italia. Arrivati al compimento del diciottesimo anno di età possono presentare una dichiarazione di volontà  all’ufficiale di stato civile, ma dovranno poi dimostrare di possedere i requisiti. Compito che a volte si è dimostrato veramente arduo e che ha portato il governo italiano ad inserire con il “Decreto del fare” (d.l. 69/20013 convertito con modificazioni con legge 98/2013), grazie anche alla pressione del Quirinale, una forma di garanzia, che le eventuali inadempienze burocratiche dei genitori non possano essere invocate per negare un diritto sostanziale al riconoscimento delle cittadinanza.

Siamo ora alla riforma della legge sulla cittadinanza che, secondo quanto previsto dal disegno di legge, amplierebbe lo ius soli assai ridotto previsto dalla legge del 1992 in un regime più aperto, anche pur sempre “temperato”, cioè con limiti definiti. Il ddl approvato prima alla camera il 13 ottobre del 2015, è fermo in Senato da due anni, e non sembra avere vita parlamentare facile, nonostante le rassicurazioni del Presidente del Consiglio Gentiloni, secondo cui “L’impegno che abbiamo descritto alcune settimane fa rimane, è un lavoro da fare, l’autunno non è ancora finito”. Con la nuova legge, si stima che circa 800mila bambini potrebbero diventare italiani, con lo  ius soli riformulato e lo ius culturae. Grazie al primo, acquisirebbe la cittadinanza qualsiasi bambino nato da genitori stranieri di cui almeno uno sia in possesso di un soggiorno di lungo periodo nell’Unione Europea, dopo almeno cinque anni di residenza dei genitori e la presenza di alcuni altri requisti, di alloggio e di lingua italiana. Per lo ius culturae, si legherebbe l’acquisto della cittadinanza al compimento di un ciclo scolastico quinquennale. Per tutti gli altri stranieri, compresi i discendenti di italiani, rimarrebbero valide le diverse regole stabilite con la legge del 1991.

Nel caso si approvasse la proposta del governo, i numeri non sembrano comunque spaventare. I circa 800mila i bambini beneficiari del provvedimento vanno raffrontati con i soli 474mila nati in Italia, un ulteriore calo rispetto al 2015 (486mila)  il quale aveva già fatto registrare un segno negativo se confrontato con l’anno precedente. Il promo gennaio 2017 in Italia c’erano circa 60 579mila residenti, in calo dello 0,14% rispetto al 2016.  Allo stesso tempo, la diminuzione dei decessi, circa 608mila nel 2016 contro 648mila del 2015, conferma che l’Italia invecchia. Secondo il centro studi e ricerche Idos, questa tendenza peggiorerà, trovando tuttavia soltanto un parziale bilanciamento nei flussi degli immigrati. L’Istat ha ipotizzato, a partire dal 2011, una media di ingressi netti dall’estero superiore alle 300mila unità annue (livello peraltro forse sovrastimato), per discendere sotto le 250mila unità dopo il 2020, fino a un livello di 175mila unità nel 2065. Quindi, se  in un certo senso l’immigrazione riesce a mitigare la crisi demografica in Italia, dall’altro questa non è comunque sufficiente. Come ha infatti affermato Alessandro Rosina, studioso di demografia all’Università Cattolica di Milano,  in un’intervista rilasciata per Il Foglio, “Sempre meno l’immigrazione compenserà il divario, avremo sempre più morti e le nascite saranno schiacciate in una spirale negativa che trascinerà verso il basso il paese. L’Italia è un laboratorio di questa perdita di popolazione. Non a caso alla fine degli anni Settanta ci fu l’aumento del debito pubblico che coincise con l’inizio della crisi demografica. Un paese con così tanti anziani e così pochi giovani non ha precedenti nel passato”. Si prefigura un’Italia di 45 milioni di persone.

Anche negli altri paesi europei lo ius soli viene “temperato”. In Germania, dal primo gennaio del 2000, si applica lo ius soli ma con alcune limitazioni. Il genitore del bambino infatti deve possedere un permesso di soggiorno permanente da almeno 3 anni e avere una residenza a pieno titolo nel paese da almeno 8 anni. Compiuti i 18 anni , nei primi 5 anni i ragazzi possono scegliere se acquisire la cittadinanza o rimanere con quella originaria dei genitori.

Nel Regno Unito, se il bambino nasce da un genitore britannico o che sia in possesso di un soggiorno permanente, acquista la cittadinanza per nascita. Per gli stranieri maggiorenni è possibile chiedere la cittadinanza dopo soli 5 anni di residenza nel Regno Unito. In Francia un cittadino straniero acquisisce la cittadinanza al compimento dei 18 anni, dopo 5 anni di residenza permanente almeno da quando ne aveva 11; tra i 16 e i 18 anni se risiede nel paese con continuità dall’età di 8 anni. I maggiorenni possono richiedere la naturalizzazione dopo aver risieduto in Francia per 5 anni. In caso di matrimonio si devono aspettare invece 4 anni. La Spagna presenta uno ius soli molto ampio, nel senso che il bambino straniero nato nel paese può diventare spagnolo dopo un solo anno di residenza nel paese. Per quanto riguarda gli stranieri maggiorenni, questo devono aver vissuto per almeno 10 anni nel paese. In caso si matrimonio con un cittadino straniero basta attendere soltanto un anno. In Svezia la legge, entrata in vigore nel 2006, prevede che per acquisire la cittadinanza svedese i minori devono aver vissuto per almeno 5 anni nel paese. Naturalmente i genitori devono farne dovuta richiesta all’autorità competente. Se lo straniero possiede un permesso di soggiorno permanente e vive in Svezia da quando ha 13 anni, tra i 18 ed i 20 anni può scegliere di diventare cittadino svedese. Lo straniero maggiorenne può anche richiedere a procedura di naturalizzazione in caso di possesso dei seguenti requisiti: 5 anni di residenza, permesso di soggiorno permanente e una vita condotta decorosamente.

La legge italiana vigente appare quindi più restrittiva dei principali modelli europei, anche se non sembra aver fatto argine a un’effettiva crescita di nuove cittadinanze, già in corso. Infatti, secondo uno studio dell’Eurostat, pubblicato il 21 aprile 2017, tra tutti i paesi trattati nello studio, nel 2015, l’Italia è il paese che ha concesso il maggior numero di cittadinanze in tutta Europa con 178. 035, di cui il 19,7% sono di origine albanese, il 18,2%  marocchina e l’8,1% rumena, il Regno Unito al secondo posto con 118000 cittadinanze concesse, terza la Spagna con 114351, poi la Francia con 113608, quinta la Germania dove sono 110128 ed infine la Svezia con 49044. Questi numeri vanno però analizzati prendendo in considerazione il totale di popolazione residente in un determinato paese e il totale di residenti stranieri presente nello stesso. In questo caso la Svezia presenterebbe il tasso più alto di cittadinanze concesse (5 su mille residenti totali e 6,7 su 100 residenti stranieri), al secondo posto si piazzerebbe l’Italia (rapporto 2,9:1000 e 3,6:100) al terzo la Spagna (2,5:1000 e 2,6:100), poi la Francia (1,7:1000 e 2,6:100), e infine Regno Unito (1,8:1000 e 2,2:100) e Germania (1,3:1000 e 1,5:100).

La nuova riforma quindi permetterebbe da un lato di mitigare la forte crisi demografica che l’Italia sta attraversando e inoltre normalizzare da un punto di vista normativo una situazione de facto ma dall’altro non risolverebbe il problema dell’integrazione culturale e sociale, di cui la cittadinanza è un necessario presupposto giuridico ma non la soluzione automatica.

*di Christian Battistoni, stage Torno Subito in collaborazione con la Regione Lazio.

 

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