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Concessioni balneari: una storia “all’italiana”

La direttiva comunitaria del 2006, molto impropriamente chiamata Bolkestein, riguarda la creazione di un mercato europeo dei servizi. Il suo testo originario era proposto dal leader liberale Bolkestein ed era considerato molto “di destra”, nel senso della liberalizzazione del mercato e della concorrenza, colpendo le garanzie statali sui servizi.

Si tratta di una direttiva-quadro: non disciplina veramente i servizi come una legge, ma fissa solo alcuni criteri generali.

I punti più controversi erano il “principio del Paese di origine”, per cui un’azienda originaria di un altro Paese comunitario avrebbe potuto operare, per esempio, in Italia con i salari del suo Paese d’origine. Questo princìpio è stato eliminato. Inoltre, sono stati esclusi alcuni servizi principali, per esempio sanità pubblica, servizi legali e sociali, postali. Queste garanzie hanno cambiato la direttiva, che oggi viene ancora chiamata Bolkestein forse per il “sound” suggestivo del promotore originario (Bolkestein/Frankestein).

Il settore delle concessioni balneari, in realtà, non è stato particolarmente seguito nella discussione del 2006. Il tema ha riguardato specialmente alcuni Paesi mediterranei, per motivi culturali evidenti. In particolare Spagna, Portogallo, Francia, Croazia e Grecia, e infine Romania e Bulgaria.

E sono proprio i Paesi mediterranei ad interessarci direttamente, casomai estendendo l’interesse a quelli sul mar Nero. Qui abbiamo i quattro casi più significativi:

1) Francia. È il caso più evidente di normativa severa: concessioni a 12 anni, criteri ecologicamente sostenibili con strutture smantellabili; percentuali massime di occupazione con priorità al pubblico accesso. Quello francese è quindi considerato il sistema più avanzato;

2) Croazia. Ha due tipi di concessione, una “leggera” a cinque anni, e una “pesante” che può arrivare anche a 50/60 anni in caso di costruzione di edifici (autorizzati) di particolare pregio che richiedono tempi di ammortamento;

3) Portogallo. C’è un cosiddetto regime transitorio: cioè un regime di concessioni per concorso, ma i titolari storici di concessioni possono avvalersi di un diritto di prelazione, e le concessioni, a seconda dei tempi di ammortamento, possono essere “lunghe”;

4) Grecia. Procedura concorsuale gestita a livello locale (in Grecia sono avvenute le maggiori acquisizioni da parte di operatori stranieri ndr);

5) Spagna. È il caso più delicato, perché in apparenza sembra il più simile all’Italia, con un sistema di proroghe pluridecennali. Attenzione, però, ci sono differenze: il regime  di concessione è comunque stabilito in linea di principio; le proroghe sono sottoposte ad un esame ambientale; soprattutto, in Spagna, non si fa concessione della spiaggia, che viene considerata libera, ma degli immobili, che erano privati perché un tempo in Spagna non c’era il demanio marittimo sulle coste come da noi, quindi c’è una situazione storicamente diversa, in cui gli immobili sulle coste sono stati demanializzati dopo (nel 1988) e c’è un problema di risarcimento. Comunque, scontate le differenze giuridiche, quello spagnolo è il caso in qualche modo più simile all’Italia negli effetti.

C’è da domandarsi perché il caso sia scoppiato proprio adesso. Fondamentalmente per due elementi: l’apertura di una procedura d’infrazione verso l’Italia da parte della Commissione europea, e il ricorso al Consiglio di Stato contro la legge del 2018. Per la prima, appare cruciale l’assoluta mancanza nell’attuale legge italiana (del 2018 e del 2020) di un sistema di concessioni per concorso, per lo meno “pro-forma”, con la proroga automatica al 2033. Di qui la sentenza del Consiglio di Stato   che ha stabilito che questa situazione è illegittima, e deve cessare entro il 2023, termine dopo il quale cesserà comunque la validità delle concessioni “storiche”. Il governo ha reagito alla procedura d’infrazione della Commissione sollevando obiezioni, ma di fronte al Consiglio di Stato ha preso atto e previsto un disegno di legge.

Alcuni argomenti sollevati contro la direttiva appaiono eccessivi. Ad esempio il fatto che le spiagge siano “beni e non servizi” o “il rischio” che “potrebbero partecipare alle gare capitali stranieri, magari dalle mafie russe e cinesi”, ma in un Paese come l’Italia dove si è avuto molto clientelismo e poca trasparenza nelle concessioni, non appaiono argomenti perlomeno coerenti.

La questione di proteggere gli imprenditori balneari italiani richiede un affinamento: appare poco convincente combattere il principio di concorrenza, dal punto di vista degli imprenditori, e non si vede perché non potrebbero essere proprio imprenditori italiani ad accedere a concessioni in altri Paesi comunitari. Questo tema va quanto meno rifinito, se si vuole evitare l’accusa di corporativismo, protezionismo e clientelismo.

C’è poi il tema “l’Europa ci impone”: questo non è vero. Innanzitutto l’Europa siamo noi, e gli europarlamentari italiani hanno votato la direttiva. In secondo luogo, la direttiva fissa princìpi generali, il problema è tutto nella norma applicativa italiana.

Ancora, si parla del rischio “finiremo come la Grecia”, con il numero significativo di ingressi di aziende dall’estero. Ma noi, per fortuna, non siamo la Grecia, per solidità e capacità di capitali e di aziende.

Come Unsic, tendiamo a ribadire che il primo problema è di tipo giuridico: anche se sul piano degli effetti, la situazione italiana non è troppo diversa da quella spagnola o portoghese, Spagna e Portogallo hanno almeno stabilito in linea di principio il sistema di concessioni, e hanno deciso alcune condizioni. L’Italia, viceversa, ha soltanto prorogato l’esistente.

Questa pare la vera causa della procedura d’infrazione. Peraltro, manca un’armonizzazione tra le diverse legislazioni nazionali, che la direttiva non ha il potere di imporre, e che lascia scettici sull’effettiva creazione di un unico mercato liberalizzato dei servizi balneari. In pratica, i regimi nazionali si avvicineranno, ma rimarranno separati ancora a lungo. Una legge, quindi, ci vuole, che recepisca la direttiva, e il Consiglio di Stato ha dato il calcio finale.

Il governo Draghi intende recepire subito la scadenza delle concessioni al 2023 e instaurare un sistema di concessioni per concorso dal 2024. Per questo esiste un disegno di legge, tuttora piuttosto scarno essendo un progetto di legge delega che poi avrà decreti attuativi successivi, ma che stabilisce alcuni principi notevoli: il punteggio per le nuove concessioni favorirà le aziende preesistenti, con esperienza, e sfavorirà quelle che hanno già una o più concessioni: insomma si va costituire un meccanismo di selezione controllata che favorirà significativamente le realtà locali.

Ma il punto chiave sembra essere l’indennizzo: previsto in legge, garantirà la “buonuscita” di coloro che rinunciano o perdono la concessione. Inoltre il Ddl menziona una clausola sociale di tutela dell’occupazione e una serie di garanzie sulla remunerazione dell’investimento e l’ammortamento delle spese.

Ciò premesso, come Unsic non contestiamo il Ddl, peraltro assai scarno, ma accompagnarlo per arricchirlo, in particolare, secondo i valori dell’Unsic. Cioè per la tutela delle piccole aziende e delle aziende a conduzione familiare e per la difesa dei modelli locali, che posso essere aggiornati ma non cassati per un modello astratto di liberalizzazioni e concorrenza che appare ideologico e sprezzante delle tradizioni e della cultura locale. Inoltre per la tutela di tutti gli stakeholders, enti locali, lavoratori, consumatori, in un modello partecipato e condiviso che non si riduca soltanto alla maggiore economicità dell’offerta da parte del concessionario. Va poi rafforzata la tutela ambientale e accresciute le garanzie di reddito e di redditività in termini di diritti consolidati dall’esperienza e dalla presenza sul territorio.

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