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L’Europa è isolata? Conseguenze della Brexit

Nella vecchia battuta “burrasca sulla Manica, l’Europa è isolata”, c’era molto del buon vecchio humour inglese. Però la Brexit (l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, votata nel referendum per 51 a 48 dagli elettori britannici il 23 giugno scorso) non è uno scherzo, e potrebbe costare cara. A tutti noi, ma specialmente al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Un regno che, giuridicamente, ricordiamolo, non ha una costituzione scritta come d’uso nelle altre nazioni europee, e che si è formato per l’unificazione sotto la stessa corona di diversi “paesi”, che tali ancora vanno considerati, l’Inghilterra, la Scozia, il Galles (che compongono la Gran Bretagna) più l’Ulster, o Irlanda del Nord. La separazione di uno o più paesi dal Regno Unito non è impensabile né impossibile: nel 2014, un referendum ha visto l’indipendenza della Scozia respinta per un piccolo margine, 55% di no e 44% di si. Le ragioni degli indipendentisti scozzesi sono legate alla storia recente del Regno Unito, piuttosto che al richiamo alle tradizioni antiche della Scozia: il partito nazionale scozzese, che ha la maggioranza nel paese e ha un programma di sinistra, si è rafforzato con gli anni, nella convinzione crescente che il governo di Londra quando ci sono i conservatori si disinteressa di quello che vogliono gli scozzesi, quando ci sono i laburisti fa comunque troppo poco. La leader Nicola Sturgeon, che è primo ministro del governo scozzese, ha dichiarato che il suo partito non è contro gli immigrati, non è contro l’Europa, insomma non c’entra niente con i tipici programmi dei nazionalisti, piuttosto sostiene l’idea di una Scozia con più servizi sociali, università gratuite e più tasse per i ricchi, tutte cose che non si potrebbero ottenere facilmente con gli inglesi, che alla fine sono di più, sono più conservatori e decidono per tutti. Si capisce facilmente che per la Sturgeon non ha senso tutto il movimento che ha portato alla Brexit: una specie di patriottismo inglese che pretende di parlare anche a nome degli altri britannici; che sostiene che Bruxelles non può permettersi di dire a Londra cosa deve o non deve fare; che critica il bilancio europeo troppo generoso in termini di spesa sociale e agricola per i membri di nuovo ingresso, specialmente dell’Europa orientale; che immagina che un Regno Unito libero degli impegni europei possa ancora giocare un ruolo mondiale tutto da solo, com’era fino a cent’anni fa. Del resto, il partito che massimamente ha sostenuto la Brexit, l’Ukip, che vuol dire partito dell’indipendenza del Regno Unito, anche se si chiama così è essenzialmente un partito inglese e un pochino gallese, ma in Scozia non se lo fila nessuno. Ma se la Sturgeon può odiare la Brexit, potrebbe amare una sua conseguenza: il referendum sull’indipendenza della Scozia potrebbe essere riproposto, perché si potrebbe sostenere che i risultati del 2014 non sono più significativi, dopo una tale rivoluzione. Quanto all’Irlanda del Nord, essa è uscita soltanto da poco da una lunga, sanguinosa e complicata guerra civile, detta tra “cattolici” e “protestanti”, ma piuttosto una guerriglia etnica tra cittadini di cultura irlandese e antichi discendenti di immigrati “britannici”.  Ora in Ulster regna una pace che ha quasi del miracoloso: il primo ministro è Ian Paisley, capo storico dei più duri protestanti unionisti, e viceprimoministro Martin McGuinness, già esponente dell’Ira, quelli della lotta armata cattolica. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe avere ripercussioni su una pace ancora molto fragile, che si regge anche, per esempio, sul fatto che con l’Europa unita il confine tra Ulster e Irlanda è praticamente sparito, le regole europee sono comuni, e insomma una guerra dentro l’Unione Europa era diventata persino ridicola. Si noti, infine, che in Ulster e in Scozia la gente ha votato contro la Brexit (il 55% in Ulster e il 62% in Scozia). Dopo un referendum così importante, ci si aspetterebbe che i vincitori chiedano di andare al governo: ma il capo dell’Ukip, Nigel Farage, ha dato di corsa le dimissioni, dicendo che ha bisogno di tempo per la sua vita privata, e Boris Johnson, il dissidente conservatore che ha sfidato e battuto il primo ministro Cameron, ha pure dichiarato che non intende candidarsi a primo ministro. E’ abbastanza strano che i vincitori si comportino da perdenti, e molti commentatori, a Londra e a Bruxelles, sospettano che né Farage né Johnson credessero di vincere, ma solo di fare un’agitazione che servisse alle loro carriere politiche, e adesso non sanno cosa fare. Fatto sta, che i due capi della Brexit hanno convinto gli elettori che lasciare l’Europa sarebbe stato bellissimo, ma non vogliono governare questa cosa tanto bella. E mentre il Regno Unito entra in una crisi politica mai vista, con un governo dimissionario, la Scozia in fibrillazione e l’Ulster che preoccupa, a Bruxelles, in accordo con tutti i principali governi europei, si è subito messo in chiaro che questa Brexit va fatta al più presto. Già, perché i sostenitori del referendum antieuropeo sembrano aver pensato che, spaventati dalla perdita di un membro dell’Unione Europea certo importantissimo, ci sarebbe stata una trattativa dove gli altri europei avrebbero offerto ogni possibile concessione, per tenere dentro il Regno Unito in qualche modo, condizioni di favore da lasciare Londra con quasi tutti i diritti di chi è nella UE, ma senza i doveri. Invece, la voce europea è stata chiarissima: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, e questo deve aver spiazzato i Johnson e i Farage. Non si può neppure immaginare che Londra “retroceda” ai diritti del più blando status di paese associato alla UE, tipo oggi l’Albania, perché quello status esiste come anticamera dell’ingresso: in retromarcia non funziona. Quindi, i britannici si devono preparare alla fine del mercato unico, e ritorno al controllo doganale e ai dazi per le merci britanniche; alla fine della libera circolazione delle persone, con problemi per le migliaia di cittadini britannici che ora vivono in Europa, e per l’economia inglese nel suo complesso, dove lavorano decine di migliaia di cittadini comunitari; alla fine dei programmi europei, dalla Politica agricola comune a Horizon per la tecnologia all’Erasmus.  L’argomento più forte dei sostenitori della Brexit è di bilancio. C’è un risparmio che il bilancio inglese potrebbe avere dalla Brexit, visto che Londra, pur già godendo di una serie di sconti, riceve nel 2015 da Bruxelles “soltanto” un po’ meno di 7 miliardi di euro ma contribuisce per 11 miliardi e 340 milioni euro, più 2,7 miliardi di dazi raccolti per conto dell’Ue, al netto delle spese di raccolta (per confronto, l’Italia, che è un altro membro creditore dell’Europa, riceve 10.6, e paga 14,3 più 1,5 di dazi trasferiti; i membri che ricevono più di quanto pagano sono quelli meno ricchi, per esempio la Polonia). Ma questo “risparmio” potrebbe risultare molto ipotetico: con la Brexit, ci si attende che molte grandi aziende trasferiranno i loro quartieri generali sul continente, perché non possono permettersi di stare fuori dal mercato unico europeo; i costi sull’import ed export aumenteranno, e la sterlina perderà valore. L’Europa non sono solo i bilanci, c’è la qualità: stare in Europa sarà un po’ costoso, ma permette di partecipare ai grandi progetti di ricerca, agli scambi, insomma a tutta una serie di attività per la diffusione di conoscenza e tecnologia. Non per caso, il voto alla Brexit si è concentrato sulle fasce più anziane e meno istruite dell’elettorato, mentre i giovani che viaggiano e specialmente coloro che fanno attività a livello universitario hanno, di solito, votato per rimanere in Europa. Alla fine, ci si attende un impoverimento di lungo periodo della Gran Bretagna, una riduzione della produttività e dell’occupazione e una caduta della qualità tecnologica; si registrerà anche un impoverimento dell’Europa del suo complesso, non tanto per quei 4 o 6 miliardi di euro, ma perché all’Europa mancheranno appunto l’intelligenza e la cultura dei britannici. Ma il prezzo da pagare, alla fine sarà più alto per chi rimane davvero isolato.

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