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Pac: è riduttiva la logica della “contabilità e convenienza”

VenetoLa Politica agricola comune arriva in questi mesi a un passaggio importante della sua annunciata, invocata, lunghissima autoriforma. E’ del resto evidente che il più importante pilastro economico dell’Unione europea, che impegna tuttora il 38 per cento del bilancio (negli anni Settanta era persino il 70 per cento), sia una macchina grande e complessa, quindi relativamente lenta da modificare. Si ricordi sempre che i grandi programmi europei vanno per cicli settennali (2007-2013, 2014-2020). La nuova Pac, così come pensata negli ultimi anni, anche come esito di molteplici spinte e controspinte dei diversi governi europei, delle associazioni agricole, dei consumatori e dell’industria, si è orientata verso alcune prospettive strategiche precise. Innanzitutto, si è proseguito nella direzione del pagamento di base e della convergenza interna, cioè di un sistema di pagamenti agli agricoltori progressivamente sempre più uniforme e “disaccoppiato” dalla qualità delle produzioni e dalla storia e peculiarità dei singoli Paesi; al tempo stesso, si è fatto crescere il cosiddetto secondo pilastro, quello dello Sviluppo rurale, che invece esalta gli aspetti qualitativi, ma richiede non una semplice gestione di finanziamenti pressoché automatici, ma piuttosto una precisa capacità di progettazione. Tutto questo, nella cornice di una spinta verso la riduzione del bilancio agricolo europeo, tuttora avvertito da molti come sovradimensionato rispetto al contributo che l’agricoltura europea darebbe al prodotto lordo e alla ricchezza generale. La prima questione è appunto quella dell’equilibrio tra le varie voci del bilancio europeo: e non è detto che la voce agricola, per quanto ingente, debba essere così necessariamente destinata a un’ulteriore riduzione. L’agricoltura non si può infatti misurare solo in termini di contabilità e convenienza; vi sono ragioni complesse, basti pensare alle preoccupazioni sul cambiamento climatico e la crescita della popolazione mondiale, che hanno riportato in auge concetti che sembravano antichi, come quello dell’autosufficienza alimentare e delle scorte strategiche di cibo. L’agricoltura è poi anche cultura, gestione del territorio, tutela ambientale, ed ecco quindi che la spesa agricola non sembra più così sproporzionata. Qui c’è il problema più delicato: la tendenza a uniformare il sistema dei pagamenti, spinta dalla convinzione che i diversi regimi nazionali garantissero privilegi a certi Paesi a svantaggio, soprattutto, dei paesi europei dell’Est, più poveri e con un’agricoltura più estensiva. La “convergenza”, mirata a rendere più semplici e simili tra loro i pagamenti, si è indirizzata sul criterio del pagamento per ettaro. Politica-agricola-comune-UEE’ evidente che questo non regge ad occhi italiani: l’agricoltura italiana è da sempre fondata su appezzamenti relativamente piccoli, ad alto valore aggiunto. Le nostre produzioni più importanti e delicate si definiscono per qualità, non per quantità, e tanto meno per estensione. Il criterio contributivo cosiddetto “flat”, cioè piatto, uguale per tutti, come ha detto recentemente il ministro Martina in Parlamento, non coglie la particolarità dell’agricoltura italiana, e deve essere affiancato da altri criteri. E’ la stessa divisione in due pilastri, uno pressoché automatico e legato all’estensione coltivata, e uno qualitativo, che appare a volte difficile da digerire per l’agricoltore italiano, che tradizionalmente, si pensi alla vite, all’olivo, agli agrumi, opera in territori dove siepi, filari, alberature e colture diverse sono già esistenti, e non devono essere costituiti dal niente, come accade in altri contesti, dove magari si tratta di “rinverdire” estese coltivazioni a cereali, barbabietola o altri prodotti coltivati estensivamente e a forte meccanizzazione. Ci sono poi molti altri criteri che devono essere messi in gioco, dalla riduzione della chimica al minor consumo di risorse idriche, alla tutela della diversità genetica, che significa anche difendere le varietà tradizionali, non solo perché “è bello”, ma perché, in malaugurati scenari di “nuovo Medioevo”, cioè di epidemie e crisi produttive, è importante conservare piante che abbiano caratteristiche oggi poco redditizie, ma domani utilissime. L’Italia deve intervenire quindi, in difesa, per tutelare le tradizioni nazionali, il piccolo e buono contro il tanto a buon mercato, ma, in attacco, deve anche proporre nuovi modelli di sviluppo agricolo, contribuendo a disegnare un’agricoltura a misura d’uomo, diversa da un modello industriale che non è più moderno, ma già superato.

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